Direttore editoriale:
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Direttore responsabile:
Franco Baiocchi
Supplemento del settimanale satirico
SOR PAOLO iscritto nel Registro
della Stampa del Tribunale
di Teramo con il numero 544
18 dicembre 2005

La giustizia a macchia
di leopardo

22 luglio 2014

C’era a Teramo, da anni, un Procuratore della Repubblica che si chiamava Gaetano Ancona. Lo chiamavano tutti don Gaetano, perché lo rispettavano tutti. Era verace, generoso, buono d’indole e di animo. Anche quando per gli imputati chiedeva condanne pesanti, non ometteva mai un riconoscimento caritatevole, non si tirava mai indietro quando si doveva stendere un velo pietoso o concedere un’attenuante. Era un cacciatore e i suoi compagni di caccia dicevano che anche quando sparava con il suo fucile alle lepri, spesso sbagliava il colpo perché all’ultimo momento era preso quasi da un senso di commiserazione e di empatia per la selvaggina. Quando arrivò come Sostituto l’allora giovanissimo Massimo Cecchini, sorprese un po’ non solo per l’inconsueto rigore etico e morale, ma anche per la severità delle sue requisitorie e per la pesantezza delle sue richieste di condanna, decisamente superiore a quella consueta al dott. Ancona.

Non pochi avvocati locali erano terrorizzati al momento in cui il dott. Cecchini, concludendo la sua requisitoria, si accingeva a quantificare il tempo che sarebbe stato necessario all’imputato per scontare la sua pena, se i giudici giudicanti avessero riconosciuto la sua colpevolezza. Un celebre avvocato penalista venuto da Roma, il prof. Giuseppe Sotgiu, un giorno si permise in piena aula di Corte d’Assise, nel corso di un processo, di fare una battuta, rivolgendosi al Sostituto, che aveva appena chiesto per un imputato da lui difeso una condanna decisamente pesante. Gli disse. “Cortese Sostituto, credo che lei debba mutare il suo nome da Massimo Cecchini in Massimo Della Pena”.
    Ogni sanzione di reato prevede un minimo e un massimo e la quantificazione dipende dal riconoscimento di attenuanti e di aggravanti, in base a determinate circostanze che il dibattito processuale analizza e accerta. E’ quindi naturale che diversi collegi giudicanti o diversi giudici monocratici emettano sentenze diverse, a seconda dei giudizi espressi, per lo stesso tipo di reato e addirittura per lo stesso reato, commesso dallo stesso imputato, nei diversi gradi di giudizio previsti dall’ordinamento legislativo. Non sorprende che una sentenza di primo grado possa essere riformata in appello e poi in Cassazione relativamente alla quantificazione della pena. Sorprende invece molto, ogni volta, che una sentenza di assoluzione in primo grado possa risolversi in una sentenza di colpevolezza in appello e magari sfociare in Cassazione in una nuova assoluzione o viceversa. Come possono gli stessi fatti indurre alcuni giudici a ravvisare estremi certi di reato e altri giudici a riconoscere una piena innocenza? Come può un giudice istruttore, o chi per lui nel nuovo codice di procedura penale, rinviare a giudizio, magari con tanto di detenzione preventiva, un imputato che poi viene successivamente completamente assolto da tutte le accuse? Non pretendo che la scienza giuridica sia scienza alla stessa stregua di una scienza esatta, ma certo il diritto non può oscillare come un pendolo tra colpa certa e innocenza certa così come fa tra un minimo e un massimo della pena.
    C’è poi un altro aspetto: continuo a meravigliarmi di quanto possa essere breve la distanza tra una sanzione e l’altra a proposito di reati che sono invece assolutamente distanti quanto a gravità e a pericolosità sociale. E’ possibile condannare un imputato a diciotto mesi di detenzione per falso in atto pubblico, magari in tema di autenticazione di firme elettorali, e un altro imputato ad appena sei anni per il delitto di omicidio in persona del proprio figlio? Possono tutte le attenuanti e le aggravanti di questo mondo rendere così esile il velo tra una sanzione e l’altra?
    E’ possibile poi che ad anni di distanza dalle indagini iniziali un iter processuale non sia ancora concluso o che si concluda in una bolla di sapone un impianto accusatorio di gravità inaudita, tale da determinare l’arresto preventivo degli indagati, l’annientamento di una giunta regionale, l’annichilimento di una carica istituzionale, il disfacimento della dignità di una persona?
    Ho fatto parte di organi giudicanti nel mondo della scuola. Ho condiviso con colleghi le responsabilità gravi di giudizi scolastici che hanno determinato la promozione e la bocciatura di studenti in momenti cruciali del loro corso degli studi. Ho sempre avvertito, in ogni decisione, sempre sofferta, il peso della responsabilità del giudizio e la paura di sbagliare. Troncare o arrestare la carriera scolastica di uno studente ritenuto non meritevole di proseguirla è, tuttavia, assai meno grave di privare una persona della sua libertà e di spedirlo in galera, magari per anni e anni. L’errore giudiziario sempre in agguato deve aver turbato il sonno a centinaia e centinaia di giudici e di componenti di collegi giudicanti. O no? Esistono davvero giudici che, dopo aver comminato un ergastolo (o in qualche caso addirittura la pena di morte) se ne vanno nel proprio letto a dormire il sonno del giusto? Cosa c’è nell’animo e nella coscienza del giudice che tormentò a morte il povero Enzo Tortora e che non solo non ha scelto di ritirarsi per sempre dalla magistratura, ma ha accertato le promozioni che gli sono state accordate e perfino incarichi politici? E che cosa c’è davvero nell’animo e nella coscienza di un giudice che assolve in maniera indecorosa un imputato eccellente, giudicando che siano quisquilie e leggerezze di comportamento azioni che un suo collega ha in precedenza giudicato come fatti di gravità penale tali da meritare una sanzione? Come può avvenire che un giudizio di assoluzione possa seguire ad una richiesta di condanna da parte del rappresentante della pubblica accusa, al di là di ogni più rosea speranza del collegio difensivo? E’ sempre e solo segno dell’indipendenza della magistratura giudicante rispetto alla magistratura inquirente o a volte non è acquiescenza ai poteri forti e condiscendenza verso di essi, riverenza e inchino negazioni del diritto?
    Troppe volte l’espressione “ius soli” rappresenta qualcosa di diverso dal suo significato reale: la possibilità che lo stesso fatto sia ipotizzato come reato da una Procura e non da una Procura vicina, da un giudice e non da un altro della stessa Procura. Troppe volte alcuni giudici passano per colpevolisti a prescindere e altri per innocentisti a prescindere. Troppe volte alcuni giudici sono noti per la consuetudine di emettere le proprie sentenze senza conoscere e senza leggere i fascicoli processuali. Troppi giudici passano per “buonisti” e troppi per “cerberi”. Troppe volte la prima cosa che un avvocato spiega al proprio cliente è che ci sarà una più alta probabilità di essere assolto se si sarà giudicato da quel giudice invece che da quell’altro, o di essere condannato se sarà giudicato da quell’altro invece che da quello.
    Il diritto, per essere pieno, deve concretizzarsi anche nel diritto del ribaltamento delle sentenze. Ma non può essere materia così elastica da dare adito a interpretazioni non solo diverse, ma addirittura contrastanti, diametralmente contrastanti. Questo vale anche per le indagini e per le iniziative delle diverse Procure. E’ inspiegabile che alcune avviino indagini per ipotesi di reato relativamente a fatti e circostanze di analoga e identica natura che altre Procure tranquillamente ignorano e davanti alle quali restano del tutto inerti. E’ inspiegabile che alcune Procure perseguano reati e imputati e che altre Procure trascurano, considerando gli uni e gli altri perfettamente legittimi, pur essendo del tutto simili ed essendo diversi soltanto il luogo in cui fatti sono stati e vengono compiuti e perciò la sede di competenza giudiziaria. Si parla tanto di giustizia ad orologeria. Mi spaventa di più la giustizia a macchia di leopardo.

Elso Simone Serpentini

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