Il decalogo sulla cultura di Di Dalmazio ("La Città" febbraio 2010)

Da una cronaca pubblicata di recente estraggo dieci affermazioni attribuite all’assessore regionale alla cultura Mauro Di Dalmazio. Considerando affidabile la mediazione del giornalista e prendendola per buona e ammettendo di non avere altra fonte, posso considerare le dieci affermazioni come una specie di “decalogo Di Dalmazio” sulla cultura abruzzese e su quanto egli intende fare. Ecco il “decalogo”:

1- La cultura in Abruzzo è all’anno zero.

2 - L’Abruzzo deve cambiare il modo di approcciarsi alla cultura.

3 - La cultura in Abruzzo è stata sempre vista come un settore essenzialmente improduttivo, come un’occasione di esposizione.

4 - E’ in atto un sistema di conservazione che non consente l’accesso a tutte quelle energie che pur sono presenti nel tessuto della nostra regione, drogato da venti anni di assistenzialismo.

5 - Sono necessari nuovi principi, un radicale cambio di mentalità e di impostazione, sia dal lato istituzionale, con una riforma normativa, che dal lato degli operatori della cultura.

6 - La cultura va vista con un’ottica imprenditoriale, nella quale si deve sapere se un progetto, magari pur bello, ha una sua sostenibilità.

7 - Dobbiamo premiare il merito e la produttività, in modo che dalla cultura non arrivi solo una crescita spirituale, ma anche materiale.

8 - Noi non siamo operatori culturali, ma amministratori della cultura. Non devo portare avanti ciò che piace a me, ma ciò che penso possa avere un ritorno per la mia regione.

9 - Il denaro non deve essere disperso in mille rivoli e va abbattuto il campanilismo. Se la Regione finanzia una manifestazione, questa deve avere un qualche valore culturale e dei ritorni in termini di immagine.

10 - Sarà una battaglia assai difficile, visto che l’istinto di conservazione di chi si vede come destinatario dei benefici sarà resistentissimo.

Analizzo le dieci affermazioni soffermandomi su ciascuna di esse quanto basta per giungere ad una adeguata valutazione. La prima sento di poterla condividere: non stiamo messi bene in Abruzzo quanto a cultura e mi compiaccio del coraggio dell’assessore nell’ammetterlo  e nel certificare nella seconda la necessità di un cambiamento. Certo, ho sempre trovato velleitario l’atteggiamento di chi, in qualunque settore, trova che tutto ciò che c’è stato prima è sbagliato (ricordo il celebre motto di Bartali “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Ma, se Di Dalmazio se la sente di assumere su di sé un’impresa così titanicamente rivoluzionaria e se pensa che i suoi colleghi di giunta e il mondo della politica gli consentano di provare a compierla, perché non dargli fiducia? D’altro canto nella terza e nella quarta affermazione egli denuncia guai veri e seri: finora non è stato agevole l’accesso (A che cosa? Ai contributi regionali? Alla possibilità di poter usufruire di un supporto o di un sostegno?) a tutte le energie presenti nel campo della cultura abruzzese e veniamo da venti anni di assistenzialismo. Perbacco! E’ quello che ho sempre pensato e in alcune occasioni anche sostenuto pubblicamente. Dunque, ci siamo: ecco finalmente un assessore che ha capito tutto e, pur venendo da una tradizione democristiana, rimette in discussione il modo in cui ha proceduto la consorteria democristiana o partitocratica in genere che lo ha preceduto e intende rimediare ai guasti che una tradizione assistenzialistica e clientelare ha prodotto anche sul piano culturale. Però… però m’è rimasto impigliato nella rete delle mie riflessioni un concetto espresso nell’affermazione numero tre, sulla quale adesso devo ritornare, perché esso sembra venir rafforzato e meglio spiegato nelle affermazioni successive. La cultura, dice Di Dalmazio, è stata finora considerata come un settore sostanzialmente improduttivo e invece deve essere vista in un’ottica imprenditoriale e i progetti, anche se belli, devono essere considerati realizzabili solo se si palesano “sostenibili”, vale a dire se si finanziano economicamente da sé e se producono risorse, invece di limitarsi a consumarne. Insomma la cultura deve portare ad una crescita (e ad una ricchezza) non solo spirituale, ma anche materiale. Deve avere un “ritorno” economico, come viene detto nell’affermazione numero otto. Conosco bene il dibattito che c’è stato negli ultimi anni sul concetto di “produttività culturale”. Ho letto recentemente un libro, intitolato “La redditività del patrimonio culturale”, di Antonio Leo Tarasco (Giappichelli Editore, 2006), in cui si analizzano i rapporti tra efficienza aziendale e promozione culturale e viene sostenuto che la valorizzazione e dell’efficienza nella gestione del patrimonio culturale deve tener conto di un utilizzo economico e quindi se ne deve considerare legittimo un impiego economicamente produttivo, inteso proprio come produzione di un profitto. L’Unesco ha individuato un parametro, chiamato RAC, che in pratica costituisce un indice che misura il ritorno economico degli “asset” culturali. In base a questo indice è stato calcolato che il ritorno economico del patrimonio culturale degli Usa supera di sedici volte quello del patrimonio culturale italiano, che pure è di gran lunga più grande, anche se per incuria totale o quasi si va deteriorando nel tempo. Pur considerata un museo a cielo aperto, l’Italia è tuttora un fanalino di coda nello sviluppo del “business culturale” e il fatturato generato dal settore creativo e culturale nel 2008 in Italia è di gran lunga inferiore a quello degli altri paesi europei. So, dunque, che la cultura può essere considerata un moltiplicatore di reddito. Devo quindi considerare positivamente il “decalogo” Di Dalmazio? Me ne devo compiacere? Mentre me ne compiaccio per un verso, mi sento preoccupato per l’altro. E’ davvero applicabile ad ogni settore culturale questa “filosofia” del RAC? Sul piano regionale ogni aspetto delle cultura deve essere considerato alla stregua di un elemento giudicabile a seconda del reddito, anche materiale, che produce? Qualche cosa dentro di me mi dice di no. Alcuni esempi mi si impongono. Già i latini dicevano che la “poesia non dà pane”, decine e decine di grandi artisti, in ogni campo dell’arte, sono morti in miseria e al di là dell’attività museale, dell’organizzazione di eventi e manifestazioni, spettacoli teatrali e musicali, grandi mostre, mi si restringe il campo di “prodotti” culturali dai quali un assessore regionale debba necessariamente attendersi un “ritorno” concreto in termini economici. Mi si affollano nella mente molti interrogativi. La redditività culturale non può essere data anche da una razionalizzazione e da una riduzione degli sprechi nell’amministrazione regionale della cultura (che Di Dalmazio ricorda essere compito specifico dell’ente), anche contenendo al massimo la struttura organizzativa dell’ente regione? Quanti sono gli addetti al settore cultura nella regione Abruzzo? Nella regione Toscana sessanta persone hanno gestito nell’ultimo quinquennio 400 milioni di euro, solo per gli investimenti. In Abruzzo quale è stato nello stesso periodo il rapporto tra la dimensione della struttura organizzativa e l’ammontare delle risorse disponibili e attivate? Sono possibili ulteriori razionalizzazioni e un’ulteriore riduzione degli interventi a pioggia della Regione? Per superare la frammentazione e favorire l’integrazione degli interventi culturali, la Regione Abruzzo si è dotata di un adeguato ed efficiente Piano integrato della cultura, al quale altre Regioni hanno affidato il compito di programmare i loro interventi nel settore della cultura? Non è vero forse che, pur essendo la Regione Abruzzo dotata di un’ottima Legge (la numero 56 del 10-09-1993), che in materia di promozione culturale fissa norme precise e condivisibili e pur accogliendo la dicitura di “Assessorato per le politiche culturali” per il proprio Assessorato alla cultura, in pratica ha seguito sempre la politica del “i soldi sono nostri e li  gestiamo come meglio ci pare”? Non è forse vero che la Giunta Chiodi nell’anno finanziario passato è come se non avesse avuto un assessorato per le politiche culturali per la totale mancanza di fondi (causata dal deficit nel settore della sanità prodotto dalle giunte precedenti) e che, quindi, solo quest’anno Di Dalmazio sarà messo nella condizione di svolgere un ruolo di programmazione attivo? Ed è sicuro l’assessore Di Dalmazio di poter amministrare e gestire la cultura abruzzese alla stregua di un’attività in cui conta solo o soprattutto il fatturato, escludendo pertanto dalle sue finalità compiti non certamente secondari, quale l’arricchimento culturale dei cittadini (non valutabile in termini materiali) e la promozione della cultura abruzzese in Italia e all’estero (non remunerativi in termini immediati e da considerare in termini di investimento)? Tornerà la Regione Abruzzo a prendere parte ad eventi recentemente disertati (tra le quali varie fiere del libro, dove si sarebbe potuto promuovere l’editoria abruzzese) per assoluta mancanza di fondi? Ed è sicuro l’assessore Di Dalmazio che il suo decalogo, con il mito della cultura come settore redditizio e fatturabile, riuscirà a garantire il necessario sostegno agli operatori culturali abruzzesi, che sono stati finora lasciati soli, soprattutto in mancanza di qualche santo in paradiso?

 Elso Simone Serpentini