Caro professor Serpentini... ti rispondo

(lettera di risposta del vecchio campo sportivo comunale)

 

 

             

    Caro prof. Serpentini, ho ricevuto la tua lettera e ti ringrazio per avermela spedita. Ho avuto così la prova che qualcuno a Teramo si ricorda di me. Ringrazio te e i cinquemila cittadini teramani che hanno avanzato una richiesta di grazia a mio favore, senza vederla accolta e quindi senza essere riusciti ad evitare la sentenza della mia condanna a morte. Non è che chiedessero molto, chiedevano soltanto di consentire a tutti i teramani di esprimere il proprio parere, per poi eventualmente tener conto di quello della maggioranza prima di prendere la decisione definitiva. Ma, evidentemente, la mia sorte è segnata e non ho scampo. Quindi questa mia corre il rischio di essere la mia ultima lettera, l’ultima lettera di un condannato a morte.

     Ti ho visto, sai, professore, affacciato più volte a quelle finestre dell’Archivio di Stato dove passi tanto del tuo tempo. Ti ho visto dare più di una sbirciata commossa a questo mio prato verde non più tanto verde e mangiucchiato dal sole e dall’arsura, oltre che dall’incuria; a questi bambini e a questi giovani che mi corrono sopra inseguendo un pallone; a questi moncheroni della mia curva ovest, una curva concepita, ma poi abortita e mai nata; a questa mia povera tribuna ormai sgangherata; a questa mia curva est, dove per tante domeniche sono stati dispiegati gli striscioni del tifo biancorosso. Ti ho visto anche l’altro giorno, nel pomeriggio, quando sei venuto a trovarmi e hai calpestato il mio prato per qualche minuto, inciampando a volte sulle zolle e sulle buche. Hai saggiato le mie porte dalle reti bucate; ti sei seduto su una delle mie panchine, come hanno fatto nel corso degli anni tanti allenatori e tanti giocatori desiderosi di subentrare a partita iniziata a qualche compagno stanco o infortunato. Non ti ho detto niente e sono rimasto in silenzio, poiché anche tu eri in silenzio, quasi in meditazione, e ho preferito dirti quel che volevo dirti in questa mia lettera di risposta.

      Cosa dirti? Che mi dispiace morire? A chi non dispiace? Che sono convinto che potrei essere ancora assai utile a questa città? Se solo mi ringiovanissero un po’ e mi curassero? Certo che ne sono convinto. Convintissimo. Mi piacerebbe restare al servizio della città e dello sport, anche adesso che quel mio cugino di Piano d’Accio, nuovo nuovo, fa fare più bella figura di me a chi viene a giocare a calcio a Teramo. Sai, l’altro giorno mi ha scritto una cartolina, in cui mi dice che si vergogna un po’ ad essere così bello e così poco frequentato. Che mi invidia un po’, pensando a come erano frequentate le mie curve e piene di bandiere e di striscioni, mentre nelle sue (anche nelle partite più importanti e il giorno della festa della promozione) c’erano pochissime persone, quasi sperdute in quei grandi spazi. Mi piacerebbe essere ancora utile soprattutto agli amatori e ai non professionisti del calcio, accetterei perfino di essere trasformato in un parco giochi per bambini, in uno spazio aperto per la ricreazione e la socializzazione. Ma dover scomparire, condannato a morte, per far posto ad un teatro e a dei condomini… Che tristezza! L’altro giorno mi hanno detto ad un orecchio il nome di chi verrà ad abbattermi, ha un nome che sembra quello di un sicario da opera lirica… hai presente Sparafucile del “Rigoletto”, il sicario che uccide Gilda? Beh, pare che il mio si chiami… Straferro. Ma non ce l’ho con lui. Farà il suo dovere. Eseguirà gli ordini. Non ce l’ho nemmeno con il sindaco Brucchi. Anche lui fa il suo dovere ed esegue gli ordini. Ce l’ho con quelli che hanno deciso davvero della mia sorte e sono determinati a volere la mia fine. Ce l’ho con i mandanti del mio assassinio.

      Ho trascorso questi ultimi giorni in apprensione, ma non più di tanto. Ormai sono rassegnato. Ho ripensato ai miei tanti giorni belli, e anche a quelli brutti. La nostalgia indora anche i momenti meno felici, quando vengono ricordati e ogni ricordo diventa bello di malinconia. Quanti anni sono passati da quel giorno in cui nacqui! Non avevo un prato verde, ma un fondo di sabbia che, quando pioveva, diventava melma. Non avevo una vera tribuna e, quando me la fecero, era di legno. Poi me ne fecero una di cemento e i miei “distinti” (con tre gradoni che diventavano quattro giù, verso la Casa dello Sport, davanti alla casa di “Taluccio”, il custode), li chiamavano ”prato”. Quanti non avevano denaro sufficiente per comperare il biglietto d’ingresso andavano sui tornanti della Specola e da lassù cercavano di seguire le partite come potevano. Mi sono sempre chiesto come facessero, visto che di me vedevano solo una metà. E poi, quando la tribuna fu sopraelevata, non videro più nulla. Ma bando ai ricordi. Voglio rimanere sereno e con il ciglio asciutto. Sarà quel che sarà. So quel che si prova ad andarsene. Un giorno di tanti anni fa ricevetti una lettera dal vecchio teatro comunale, pochi giorni prima che lo abbattessero. Anche la sua sorte era segnata e lui lo sapeva. La sua lettera di addio era molto commovente. Lo rendeva triste sapere che al suo posto avrebbero costruito un grande magazzino e non lo consolava il fatto che sarebbe stato affiancato da un cine-teatro, che tra l’altro, mi scrisse, non si affacciava nemmeno sul Corso principale, ma su una via secondaria. Adesso che tocca a me, comprendo ancora di più come dovesse sentirsi dentro, nell’animo, mentre attendeva i picconi che lo avrebbero demolito. Perché a lui toccarono i picconi, all’epoca non c’erano ancora le ruspe, che invece toccheranno a me.

      Ecco, caro amico professore, quando arriveranno le ruspe, so che tremerò di paura, ma cercherò di farmi coraggio. Non potevo pretendere di festeggiare i cento anni di vita. So che a Teramo poche cose superano questa età e quelle che ci riescono devono poi faticare a farsi prendere in considerazione o ad uscire dal dimenticatoio dove sono precipitate a causa di una pervicace tendenza all’oblio e alla smemoratezza culturale. Qualcuno mi suggerisce di perdonare chi mi ha condannato a morte, ma non lo farò. Né perdoni né lapidi. Non mettano qui, su quest’area, da qualche parte, una lapide con la scritta: “Qui ci fu un tempo un campo sportivo comunale”. Non voglio nessun “Qui giace”. Voglio solo essere dimenticato. Ti prego di esternare a mio nome l’amarezza a due persone il cui più o meno tacito assenso alla mia eliminazione mi ha dato il senso del “tu quoque” che Giulio Cesare rivolse al prediletto Bruto, mentre gli piantava anche lui un coltello nel ventre. Non mi aspettavo che tra quanti mi hanno condannato senza appello ci fossero anche la figlia di chi per tanti anni seminò e curò il mio prato verde, quand’era al massimo del suo splendore, e il figlio di uno speaker che con la sua splendida voce mi faceva fare tanta bella figura con gli ospiti. Rivolgo a loro il “tu quoque” e me ne faccio una ragione. Che bei tempi quelli in cui mi chiamavano la “Scala del calcio”! Ma, maledizione, solo adesso mi viene in mente che qualcuno, forse, pensò proprio allora di abbattermi e costruire al mio posto un nuovo teatro o prendere la scusa di voler costruire un nuovo teatro per coprire il verde del mio prato con il grigio del cemento.

      Proprio ieri ho avuto un colloquio con la mia compagna di una vita, la Casa dello Sport. Non ho avuto il coraggio di esternarle la mia paura che un giorno possa toccare anche lei una triste sorte. Temo tanto che qualcuno proporrà di abbatterla e di costruire al suo posto qualche altra cosa che con lo sport non avrà più niente a che fare. Forse stanno assistendo inermi al suo lento degrado proprio per poter prendere a scusa della sua demolizione, un giorno, il suo pessimo stato di conservazione, come hanno fatto con me e ancor prima con quel vecchio teatro che stava sul Corso. Sono contento che tu mi abbia scritto proprio per questo, perché, quando fu abbattuto quel vecchio teatro, nessuno scrisse un rigo di rammarico, non ci fu nessun necrologio. Almeno per me e per la mia sorte tra qualche decennio ci sarà qualcuno che troverà negli archivi e nelle emeroteche qualche riga scritta in mia memoria e il segno di qualche rimpianto.

      Caro amico professore, quando arriveranno le ruspe non potrò non avere paura. Augurati di essere fuori città quel giorno, perché soffriresti troppo a vedermi demolire, come i tanti che mi hanno voluto bene e che ti prego di salutare a mio nome per l’ultima volta.

 

tuo

Vecchio campo sportivo comunale