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Supplemento del settimanale satirico
SOR PAOLO iscritto nel Registro
della Stampa del Tribunale
di Teramo con il numero 544
18 dicembre 2005


Il nuovo sceriffo (le meraviglie del possibile)

13 agosto 2013

Il nuovo sceriffo arrivò di primo mattino. Le strade erano ancora deserte. Nelle strade la polvere era ancora fredda, il sole l’avrebbe arroventata nelle ore successive. Durante la notte c’erano stati furti e rapine. Il nuovo sceriffo convocò i giornalisti e a mezzogiorno prese la parola, mentre le penne e le matite di quanti lo ascoltavano danzavano sui taccuini. “Stop a furti e rapine” annunciò il nuovo sceriffo.

“Stop a furti e rapine” scrissero sui loro fogli i giornalisti e l’indomani “Stop a furti e rapine” titolarono i giornali. Il nuovo sceriffo lesse i titoli compiaciuto. Restò compiaciuto fino a quando il mattinale gli portò la notizia che durante la notte c’erano state furti e rapine. La stella del nuovo sceriffo ora era meno lucente di quando era arrivato e lui la fece lucidare di nuovo, perché splendesse al sole di mezzogiorno. Ma anche a mezzogiorno ci furono furti e rapine, e anche nel pomeriggio e verso sera. Non parliamo poi della notte… Il nuovo sceriffo convocò un’altra conferenza stampa. Questa volta i giornalisti non ci andarono. Così lui, seduto alla sua scrivania, rimase per un po’ in silenzio, ma poi sentì il bisogno di dire lo stesso, anche se nessuno lo stava ad ascoltare: “Stop a furti e rapine”. Il suo vice sceriffo, che era un letterato e un appassionato lettore (anzi divoratore) di libri (proprio per questo era soltanto un vice sceriffo e non era mai stato nominato sceriffo) non ebbe il coraggio di dirgli che aveva fatto proprio come quel professore di una novella di Pirandello, che, quasi cieco, aveva intravisto al di là delle sue spesse lenti e nella penombra della sua aula, con sua sorpresa, tutti i banchi insolitamente occupati, come mai era avvenuto in passato, e aveva ripetuto per l’ennesima volta, ma con molto più fervore, la sua lezione sull’eresia dei catari. Senza accorgersi, poveretto, che i banchi non erano occupati da studenti, ma dai cappotti che gli studenti avevano lasciato nella sua aula, vuota prima del suo arrivo, recandosi poi ad ascoltare nell’aula a fianco un’altra mirabolante lezione di un giovane celebrato professore alla moda.
  Il nuovo sceriffo si infervorò anche lui nel ripetere: “Stop a furti e rapine” davanti ad un uditorio immaginario. Era consapevole che l’indomani i giornali non avrebbero pubblicato un solo rigo su quel suo ripetuto proclama. Pubblicarono invece nuovi resoconti di nuovi furti e di nuove rapine. Lo Stato si stava dissolvendo e con esso la società civile. L’umanità stava tornando a quello stato di natura dal quale si era affrancata quando aveva stabilito un contratto sociale con chi si era assunto il compito, in cambio della rinuncia di ciascuno degli uomini alla difesa dei propri diritti naturali, di garantirne esso la difesa. Il “pactum subiectionis” era stato infranto e ognuno, potendo, si faceva ormai giustizia da sé. La proprietà privata non era più indiscussa e non era più inviolabile il domicilio. Agli arresti domiciliari, e più o meno al sicuro dietro le sbarre delle proprie finestre, protette anche da sacchetti di sabbia, c’erano i proprietari di cose invece di quanti vivevano predando le proprietà altrui. Le strade erano sorvegliate da centinaia di telecamere che avrebbero dovuto garantire la sicurezza pubblica e privata, ma non lo facevano perché non c’erano risorse pubbliche sufficienti per pagare gli stipendi agli addetti alla lettura dei nastri. Le arterie principali e secondarie del paese erano percorse raramente da automobili delle forze dell’ordine, perché il bilancio pubblico era troppo deficitario per consentire di coprire le spese degli straordinari degli agenti e addirittura di pagare la benzina per riempire i serbatoi.
  Ciascuno degli uomini si era riappropriato del diritto naturale di appropriarsi di tutto ciò che favoriva la propria conservazione e qua e là cresceva il numero di quanti ritenevano che ognuno dovesse riappropriarsi anche del diritto di provvedere da sé alla difesa delle proprie cose e alla conservazione della propria vita. Ogni uomo stava tornando ad essere lupo per gli altri uomini, l’autorità dello Stato era ormai arrivata al punto più basso e il processo sembrava irreversibile. Non c’era più ormai un potere comune e pertanto non c’era più la legge. Ognuno era tornato a vivere in un continuo timore, nella percezione del pericolo di una morte violenta. La vita di ogni uomo era tornata ad essere come nello stato di natura, precedente al “pactum societatis”: solitaria, povera, sudicia, bestiale e breve. Anche dalle malattie si era costretti a tornare a difendersi da sé, disponendo di mezzi propri, perché il denaro pubblico non bastava a garantire il diritto alla salute. Era diventata un’espressione vuota di significato quella frase scritta nella Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti” (art. 32), così come era altrettanto vuota di senso quell’altra sull’inviolabilità del domicilio (art. 14).
   Il nuovo sceriffo nei giorni successivi si sedette ogni mattina, puntualmente a mezzogiorno, alla sua scrivania e alla presenza del solo suo vice sceriffo continuò a tuonare, con voce sempre più infervorata: “Stop a furti e rapine”. Ma i furti e le rapine aumentarono, anche se chi sovrintendeva alla lotta per farle diminuire annunciava periodicamente che erano diminuite, scambiando così le intenzioni con la realtà. La guerra di tutti contro tutti, che era ripresa da tempo, stava nuovamente portando alla inevitabile conseguenza: la morte dei singoli, che stavano cominciando a distruggersi tra loro conseguendo l’esatto opposto di quanto la natura prescriveva: l'autoconservazione. Ormai si autoconservava solo chi poteva e chi ne aveva i mezzi. Ogni tanto le contrade venivano battute dai raccoglitori di firme, che chiedevano di sottoscrivere le più straordinarie e cervellotiche iniziative. Ma la più ricorrente era la richiesta di liberare dal carcere tutti i detenuti che vi erano rimasti e ai quali lo Stato non riusciva più a garantire non solo uno spazio vitale ma nemmeno il cibo. I boschi bruciavano uno dietro l’altro e le fiamme divoravano centinaia e centinaia di ettari riducendo tutto in polvere mentre rari Canadair volteggiavano nel cielo, dimostrando tutta la loro impotenza. Le università erano già da tempo vuote di studenti, perché ormai ognuno aveva capito che studiare e leggere libri era del tutto inutile e si palesava soltanto come una perdita di tempo. Ad ogni angolo di strada c’era un negozio di compro oro, ma ormai la vendita e la compera dell’oro era praticata soltanto da quelli che se lo rubavano a vicenda, in un’alternanza di ruoli, tra venditori e compratori, che aveva però un punto fermo, un ruolo centrale di mediazione rappresentato da quelli che l’oro andavano a prenderlo ovunque si trovasse, senza tener conto di chi ne fosse il legittimo proprietario.
   Il bene e il male erano considerati soltanto, rispettivamente, l'oggetto del desiderio e dell'avversione. Ogni uomo chiamava bene ciò che desiderava possedere e faceva di tutto per realizzare il proprio desiderio. Ogni uomo chiamava male ciò che avversava e faceva di tutto per allontanarlo da sé. Non c’era più regola comune relativa al bene e al male. Stava diventando naturale che, nonostante i loro sforzi per auto conservarsi, anche i sacerdoti venissero esecrati e che, nonostante i loro tentativi di nascondersi, anche i politici cercassero di perpetuare i loro privilegi. Ai primi, si diceva, sarebbe stato concesso il diritto di scegliere il paradiso o l’inferno che avessero indicato e ai secondi sarebbe stato concesso di scegliere il modo di espiare le loro colpe.
   Il nuovo sceriffo conobbe la più grande amarezza della sua vita un giorno di fine ottobre, quando la mattina, andato in ufficio, si accorse che era stato svuotato di tutto, perché durante la notte a questo avevano provveduto dei ladri che erano stati, sì, ripresi dalle telecamere ma non immortalati, in quanto da tempo nelle apparecchiature di registrazione non venivano cambiati i nastri. Nel pomeriggio, dopo aver pranzato al tavolo di un ristorante dove fu costretto a pagare un prezzo esorbitante per un desinare assai frugale, e dopo un sonnellino di poca durata, non trovò più la sua auto, che era stata rubata nel parcheggio dove l’aveva lasciata. Proprio mentre stava tornando a casa, senza scorta, perché gliel’avevano tolta, fu rapinato da un uomo di mezza età e stempiato che, minacciando di spegnerli sulla mano la sua sigaretta accesa, lo costrinse a consegnarli il suo portafoglio. Per fortuna era quasi vuoto, perché da tre mesi il ministero non gli pagava lo stipendio.
  Rientrando a casa, il nuovo vice sceriffo non cenò, perché sentiva come un buco nello stomaco. Accese la tv, ma non riuscì a vedere alcun programma, perché, non avendo pagato il canone, gli avevano staccato la linea. Si mise a letto e disse la sua preghiera, che cominciava così: “Stop a furti e rapine”. Prese sonno subito. Sognò di essere un vecchio sceriffo del west, con due pistole ai fianchi, e di fronteggiare un “desperado” che aveva assaltato una diligenza nei pressi di Nuova Laredo. Fece fuoco e il suo rivale cadde a terra. Ma si svegliò e capì che era un sogno. Non era un vecchio sceriffo che aveva eliminato un pericoloso pistolero, ma un nuovo sceriffo che nel suo letto tremava di paura. Sentì un rumore alla porta… ebbe paura mise il capo sotto le coperte. Avrebbe fatto finta di dormire. Accadesse quello che doveva accadere. Questa volta non lo disse ad alta voce, ma mentalmente, più volte, mentre, sempre tremando, ripeteva: “Stop a furti e rapine”.

Elso Simone Serpentini

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