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Supplemento del settimanale satirico
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di Teramo con il numero 544
18 dicembre 2005

Tercas: servi anche quando erano padroni

31 dicembre 2013


La quercia caduta

Dov'era l'ombra, or sé la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande!

Pendono qua e là dalla corona
i nidietti della primavera.
Dice la gente: Or vedo: era pur buona!

Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
ognuno col suo grave fascio va.
Nell'aria, un pianto… d'una capinera

che cerca il nido che non troverà.

Giovanni Pascoli

 

Alla Tercas di querce cadute ce ne sono molte. I maliziosi si chiedono se sono cadute per davvero, tutte e se qualcuna riuscirà ancora una volta a rialzarsi, anche stavolta. Sarà dura, ma non è escluso che qualcuna di queste querce riesca a rimettersi in piedi. Intanto per adesso stanno tutte a terra e spandono la loro ombra. Contrariamente a quanto dice la poesia pascoliana, è proprio adesso, e non prima che tenzonano coi turbini, prima non lo facevano, perché erano cosi svettanti e potenti che non temevano né turbini né tempeste. Erano intoccabili. Ci sono altre differenze, significative, tra l’attuale situazione della Tercas, raffigurabile con la metafora delle querce cadute, e i versi del Pascoli. Certo, è proprio adesso che la gente percepisce con maggiore evidenza, dalla grande ombra che spandevano, quanto fossero grandi queste querce, ma non ne percepiscono alcuna bontà, se non al rovescio, nel senso che erano tanto buone con taluni quanto erano non buone per altri. Non tutti gli uccelli del creato riuscivano a fare i loro “nidietti” a primavera tra le ombre di quelle frondose querce, perché se per molti uccelli (solo uccellacci) c’era sempre una grande ospitalità, per molti altri (i poveri uccelletti o gli uccelletti poveri) ce n’era molto poca e non arrivava mai la primavera, perché sempre inverno e mai nemmeno l’autunno. Un’altra differenza sta negli ultimi versi, che lascia immaginare quanto possa essere utile ancora la quercia caduta, dalla quale la povera gente trae un po’ di legna per il proprio povero focolare. Da queste querce cadute non un solo ramo tornerà alla povera gente e tutto il “legname” che sarà possibile recuperare non avrà certo quella destinazione, finendo nell’impalpabile regione dell’imperscrutabile finanziario, dove la gente normale non solo non viene ammessa ma non riesce mai nemmeno a gettare un occhio per vedere e per capire. Efficacissimo, invece, è il quadro degli ultimissimi versi, perché le capinere che prima trovavano tra quei rami ospitali nidi non ve ne troveranno mai più, mai o almeno per un po’.
      Querce cadute, dunque, che lasciamo là dove sono, con i loro tronchi distesi e non più eretti, con le loro chiome sparse a terra e non più svettanti, potenti che hanno perduto la loro potenza, arroganti che hanno perduto la loro arroganza. Impegnati adesso a fronteggiare la situazione come mai hanno dovuto fare e preoccupati per il probabile esborso di somme enormi, a proposito delle quali bisogna evocare quel vecchio proverbio che ammonisce che chi vuole troppo nulla stringe. Le somme che costoro dovrebbero versare (restituire?) sono così clamorosamente ingenti che forse non saranno mai versate (restituite?). Ricordo un vecchio saggio che mi diceva che quando viene comminata una multa di valore limitato, solitamente si è costretti a pagarla, ma quando ne viene comminata una di valore illimitato, o troppo ingente, quasi sempre si riesce a non pagarla. Non so se questo accadrà e non so se compiacenti e prodighe iniziative giudiziarie saranno dispiegate a difesa e/o a discolpa, se arriveranno in soccorso scialuppe o gommoni di salvataggio su cui i naufraghi riusciranno a salvarsi e a salvare le loro risorse. So che queste querce cadute hanno perduto, si spera per sempre, il loro arrogante strapotere. Penso e ripenso alle migliaia di piccoli risparmiatori che hanno dovuto nel tempo pagare perfino per farsi tenere i conti dei loro risparmi, che hanno dovuto quotidianamente preoccuparsi di non andare sotto nemmeno di pochi spiccioli per non essere sottoposti a tassi usurai, penso e ripenso ai tantissimi piccoli artigiani, commercianti, imprenditori che quotidianamente si sono dovuti recare agli sportelli per depositarvi i loro modesti incassi per non incorrere in pericoli di richieste di rientri immediati, di richiami di titoli o di ingiunzioni di pagamento. Ripenso a quel piccolo esercito di frontiera che hanno continuato a creare tutti insieme una ricchezza bancaria dilapidata a colpi di concessioni di credito milionari. Penso a quei tanti biglietti di banca di piccolo taglio versati come moneta concreta, materiale, contrapposti a quell’altra moneta, virtuale, immateriale, che veniva commercializzata e distribuita solo “idealmente”, senza riscontro nemmeno cartaceo, ma solo informatico nei trasferimenti mai fisici, ma solo e sempre digitali.
      Querce cadute, ma anche potenti che credevano di esser potenti e lo erano. Però credevano di essere padroni e invece erano servi. Erano servi anche quando erano padroni. Servi del sistema, dei veri padroni, di chi dava loro ordini ed erano costretti ad obbedire, servi delle consuetudini e di una falsa concezione della ricchezza, che hanno sempre creduto materiale e mai concepito spirituale. Servi di regole di vita inaccettabili per l’uomo libero, servi di valori che non erano mai virtuosi, di regolamenti che erano catene, di amicizie che non erano vere amicizie, di concomitanze e di cointeressenze, di partecipazioni poco partecipate, servi dell’avarizia e dell’avidità, dell’ingordigia, servi dell’abitudine di avere sempre ragione e mai torto. Adesso sono, o sembrano, anime in pena, prigionieri delle loro paure di perdere qualcosa che non avrebbero mai pensato di dover temere di perdere. Adesso anche gli altri vedono il loro stato di servitù, che non vedevano quando pensavano che fossero dei padroni non immaginando che erano servi. Servi, anche quando erano padroni.





Elso Simone Serpentini

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