Direttore editoriale:
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Supplemento del settimanale satirico
SOR PAOLO iscritto nel Registro
della Stampa del Tribunale
di Teramo con il numero 544
18 dicembre 2005

Censura a scuola. Dio ce ne liberi!

7 maggio 2013

Recentemente sono stato, mio malgrado, testimone e protagonista di uno spiacevole episodio (spiacevole da qualsiasi punto di vista lo si consideri) avvenuto in un edificio scolastico, uno di quegli edifici dove ho trascorso una vita intera considerandoli come gli ultimi posti al mondo in cui quello che mi è accaduto mi sarebbe potuto accadere. Ero stato invitato a parlare di un libro di un giovanissimo “enfant prodige” teramano, Marco Esposito, autore ad appena 15 anni di un’opera che ha già avuto e sta avendo molto successo, intitolata “Il vaso di Pandora”. Dopo essere stato relatore del libro in questione in molteplici occasioni (sale pubbliche, biblioteche, librerie e altri contesti), era la prima volta che mi si dava l’occasione di farlo in un contesto scolastico, nell’ambito di un’assemblea studentesca, in un istituto di scuola media superiore di Nereto.

Ho esordito, prendendo la parola, proprio parlando dell’emozione del mio primo ritorno in una scuola dopo un lungo periodo di pensionamento successivo a 35 anni di servizio come docente.
  A questo punto, passo al presente storico, ritenendo che meglio si presti al racconto di quanto accaduto. Aspetto, insieme con il giovane autore e con l’editore, che si concluda la prima parte dell’assemblea studentesca, dopo aver accettato ben volentieri il caffè offertomi dalla preside al bar della scuola. Dalla sala dove si sta svolgendo l’assemblea mi giunge il rumore familiare di studenti che discutono. Entro, mi siedo al tavolo e prendo la parola. Come anticipavo, qualche parola di circostanza, parlando della mia emozione nel tornare a rivolgermi a degli studenti, poi entro in argomento. Il libro. Già, il libro. E’ un libro del genere fantasy, scritto da un giovanissimo e forse gradito a lettori giovanissimi, ma il titolo è “Il vaso di Pandora”. Si presta, a partire dai richiami mitologici, a sollecitazioni metaforiche, che consentono una lettura critica di fatti contemporanei. Cerco di fare ciò che so, per esperienza, essere essenziale e determinante quando si parla a dei giovani studenti: suscitare interesse. Penso di riuscirci, stando all’attenzione con la quale vengo ascoltato. Traccio un panorama di largo respiro, come si conviene, perché, presentando un libro, non ci si può limitare all’esposizione della trama e alla decantazione dei meriti dell’autore e dell’opera, tanto più che ci si rivolge a persone che non lo hanno ancora letto. Inquadro il tutto nell’ambito del contesto sociale e storico nel quale viviamo... All’improvviso, dal pubblico si stacca la figura della preside che, con tono davvero molto irritato, mi interrompe e mi invita a concludere alla svelta e a dare la parola all’autore. Tanto più, osserva, che quello che sto dicendo non le garba, non lo trova consono e adatto all’uditorio, che va salvaguardato dalla mie osservazioni e dalle mie considerazioni, molte delle quali trova troppo politiche e pericolose, eversive... Rimango allibito. Sorpreso. Scandalizzato. Continuo per un po’, poi irritato a mia volta, chiudo bruscamente e do la parola al giovane autore, che in altre occasioni ho bonariamente protetto e supportato. Marco è imbarazzato, indifeso, ma se la cava. La presentazione è finita, almeno la prima, quella ad un certo numero di classi. Poi, dopo l’intervallo, ne è prevista un’altra, per altre classi, le ultime.
  Nell’intervallo c’è, ovviamente, lo scontro con la preside, che torna a contestarmi. Le dico che accetto le critiche, le contestazioni, il confronto di opinioni, ma non la censura, che ero davvero scandalizzato per essermi sentito censurato per la prima volta durante la presentazione di un libro proprio in una scuola, che dovrebbe essere una palestra di libertà di espressione. Osservo che non avevo davvero detto nulla di scandaloso o di eversivo, che quell’atteggiamento paternalistico nei confronti di studenti riuniti in assemblea non era giustificabile. Aggiungo che le assemblee studentesche dovrebbero essere di per sé autogestite e che il personale docente ha il compito di intervenire solo in caso di sovversione dell’ordine pubblico e che non mi sentivo un sovversivo. Lei ribatte, inviperita. Le faccio presente che non è certo elegante e libertario invitare qualcuno a parlare agli studenti e poi pretendere di stabilire ciò che si può e ciò che non si può dire. Le dico che più che una dirigente scolastica mi sembra un sergente e quella scuola, più che una scuola, una caserma. Che il mio compito era presentare un libro e non quello di un imbonitore che doveva magnificare la bontà di una saponetta da vendere. Annuncio che non prenderò parte alla seconda presentazione, pur rimanendo seduto a fianco del giovanissimo autore, per sostenerlo quanto meno con la mia presenza. Arrivata a metà della discussione con la preside, una funzionaria dell’ex provveditorato cerca una mediazione, dicendo di non aver capito come lo spiacevole episodio avesse avuto origine. Ma la mediazione è di per sé inopportuna, perché basata su conoscenze “de relato” di quanto stavo dicendo quando sono stato interrotto e perché chiaramente ispirata a “cerchiobottismo”, vale a dire al tentativo di dare un po’ torto e un po’ ragione all’uno e all’altro.
   Il giovane Marco prende la parola da solo e mostra tutto il suo imbarazzo nel fronteggiare la situazione, pur aiutato dall’uditorio e soprattutto dagli studenti che dirigono l’assemblea. Sento che non posso esimermi dall’intervenire. Lo faccio, riprendo la parola, sia pure irritato. Non riesco a non dire che la scuola deve essere, comunque, una palestra di libertà, che la libertà non si vende nemmeno a prezzo di tutto l’oro del mondo. Aggiungo altre considerazioni sull’importanza per i giovani di mettere a frutto nella vita anche più di quello che la scuola è riuscita a insegnare, riprendendo il concetto che stavo svolgendo quando sono stato interrotto. Gli studenti applaudono. Hanno capito quanto è accaduto, mi manifestano la loro solidarietà. Lo fanno anche al termine dell’incontro, quando lascio la scuola, ancora deluso e irritato. Lo fanno quasi di nascosto, quasi temendo di farsi vedere da chi non vorrebbero essere visti. Qualche frase esprime più della solidarietà a me, ma anche un disagio. Ci tengono a mostrarmi che stanno dalla mia parte. La funzionaria del provveditorato continua a mediare, mi accompagna all’uscita, in sostituzione della preside, “impegnata” in altre incombenze inerenti il suo ufficio e il suo ruolo. Pare addirittura in un’altra scuola, perché i dirigenti scolastici sono pochi e al giorno d’oggi dirigono più scuole. Mi dico di aver fatto bene a non mettere più piede in una scuola dopo il mio pensionamento. Mi riprometto di non farlo più. Non mi sono mai piaciute le scuole che non sono scuole, ma caserme. Non mi sono mai piaciuti presidi che non sono presidi, ma caporali o, al massimo sergenti. Non mi sono mai piaciute le scuole dove non si consente ai giovani di crescere insieme con il diritto alla libertà di espressione del proprio pensiero e dei propri convincimenti. Non mi è mai piaciuta la censura delle idee in nessuna delle sue forme e tanto meno mi piace quando la si esercita in una scuola e con la presunta giustificazione di voler proteggere i giovani. Che cosa è diventata la scuola in questi anni in cui ne sono stato lontano? Me lo chiedo con tutte le apprensioni del caso. Che cosa sono diventati gli insegnanti in questi anni in cui non sono più stato loro collega? I giovani mi sono sembrati ancora quelli, intellettualmente curiosi, vogliosi di apprendere se ben sollecitati, desiderosi di dibattere. Ma, se la scuola è diventata questa, Dio ci liberi da questa scuola!

Elso Simone Serpentini

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