Le poesie

Via Teàtre Antiche

pubblicato su "La Città" mensile, Teramo, numero di luglio 2010.

Via Teàtre Antiche*

 

Ddo fuje, ‘na saggicce e ‘mbo’ de pane,

‘nu vecalàtte(1) a fiure… e se magnàve, (2)

tutte li sâre preste llà ‘lla case

sobbre a ‘lli prete antiche, rutte e scure, (3)

de ‘nu teatre ormàje sinz’atture. (4)

 

Da ‘llà lu seminàrie de lu Ddome

li lunghe letanìje de li pridde,

‘na scicche(5) pe’ lu core te mettàve

de ‘nu dulòre ggià predestenìte,

de ‘na rassegnazione scunfenìte! (6)

Ogne sâre ere notte a la stess’hore, (7)

ogne notte li hitte arcuminciave

‘ngime a li cuppe o forse tra li rame (8)

… la ciuàtte cchiù tarde se sendàve. (9)

 

La notte a la stess’hore pe’ ‘lla strade,

a li precìse tocche de la Torre,

‘nu passe strascechìte s’appujàve

‘nghe ‘na mandell’a rote a ‘nu bastone,

e ‘nu catarre ‘mbette de vicchiaje,

che lende e ciuppechènne se perdave,

chi sa…? ‘n quale ruàtte cchiù lundàne.

 

La notte, jò vicine a Margherite, (10)

‘nu core triste e allegre se quajàve

‘nu cande desperàte, che diciàve:

- Je cande, eppure me… so’ ‘mbrijachìte. -(11)

 

*da Alfonso Sardella, "L'uddeme landò", CE.TI. Teramo, 1978.

Via Teatro Antico

 

Due verze, una salsiccia e un po’ di pane,

un piccolo boccale a fiori… e si mangiava.

tutte le sere, presto, là in quella casa

sopra le pietre antiche, rotte e scure,

di un teatro ormai senza attori.

 

Dal seminario del Duomo

Le lunghe litanie dei preti

ti mettevano nel cuore un magone

di un dolore già predestinato,

di una rassegnazione sconfinata.

Ogni sera si faceva notte alla stessa ora,

ogni notte i gatti ricominciavano

sopra i coppi o forse tra i rami

… la civetta si sentiva più tardi.

 

La notte a la stessa ora in quella strada

ai precisi tocchi della Torre,

un passo strascicato si appoggiava

con un mantello a ruota a un bastone

e un catarro di vecchiaia nel petto,

che, lento e zoppicando, si perdeva

chi sa…? in quale stradina più lontana.

 

La notte, giù vicino a Margherita,

un cuore triste e allegro si spiegava

ad un canto disperato, che diceva

- Io canto, eppure… mi sono ubriacato.-

 

 

 

Note

(1) Vecalatte”, [dimin. di “vecàle”], boccaletto, piccolo boccale, corrispondente al “bucaletto” della poesia “La bona famìja” di Gioacchino Belli. Molti boccali in uso nelle famiglie teramane provenivano dalle fabbriche di ceramica di Castelli e presentavano delle raffigurazioni a fiori blu, detti “li fiurìcce” (i fioracci).

(2) E’ del tutto evidente qui il richiamo alla poesia del Belli. La cena era frugale, ma ci si accontentava. L’importante era mangiare, non restare senza cena.

(3) I resti dell’antico teatro romano d’Interamnia apparivano di notte scuri e trasmettevano ancora di più una sensazione di antichità e di rovina.

(4) L’immagine di un teatro senza attori dà qui la sensazione di una vita passata e di un tempo lontano, ormai perduto per sempre.  

(5)La scicche”, magone, malinconia.

(6) E’ dominante nella poetica di Sardella il senso di un destino che ha già predestinato alcuni individui e alcune famiglie ad una sorte segnata dalla povertà e dal dolore e quindi dall’infelicità. Davanti a questa predestinazione non resta che la rassegnazione, che a volte deve essere sconfinata, per poter accettare eventi assai drammatici e inevitabili.

 (7) Una vita in cui si fa sera, o notte, alla stessa ora è una vita monotona, in cui tutto accade allo stesso modo, senza che si presentino eventi che lascino adito ad una speranza di miglioramento o di maggiore felicità.

(8) E’ particolarmente efficace, e significativa, l’omissione del suono percepito dei gatti in amore. I gatti ricominciavano… ad amoreggiare. Il poeta bambino sa, pressappoco, di che cosa si tratta, ma scatta in lui una sorta di pudore, che induce ad una auto-censura e così si limita ad un’allusione impacciata.

(9) L’accenno al verso delle civette, uccelli notturni, segnala che il sonno tardava a venire, così il poeta-bambino aveva il tempo di perdersi dietro le proprie fantasticherie nel tentativo di scacciare le proprie paure, di cui le civette, il cui verso era ritenuto malaugurante, costituiscono una precisa metafora.

(10) Si allude qui al negozio di generi alimentari gestito da Margherita Ammazzalorso, coniugata Focosi, che si trovava (e si trova tuttora) in Piazza Verdi, a non molta distanza dalla casa abitata allora da Sardella, in Via Teatro Antico. Di notte, in una città in cui il traffico automobilistico era scarso e i rumori rari, era assolutamente possibile percepire il canto di un ubriaco che si fosse trovato a passare da quelle parti, dopo essere uscito da una delle tante cantine della zona.

(11) Il canto dell’ubriaco è al tempo stesso triste e allegro, spensierato e disperato, come di chi nel vino annega il proprio malessere di vita.

 

Commento

    

     Dopo aver buttato giù, di getto, i versi delle sue prime poesie, seguendo un impulso irrefrenabile, nel quale sfociava creativamente la sua ispirazione, Alfonso Sardella, consapevole di dover dare una forma alla materia poetica che gli eruttava da dentro il vulcano delle sue passioni, cominciò a confrontarsi più fattivamente con altri poeti dialettali, di cui fino ad un certo momento aveva letto solo sporadicamente alcune poesie, che però gli avevano lasciato una profonda impressione. Non conosceva Modesto Della Porta e, quando glielo segnalai, divorò il suo “Trumbòne d’accumpagnamènte”, nel quale ritrovò molti accenti e molte fonti di ispirazioni che egli stesso aveva inconsapevolmente avvertito. Quel libro lo lesse e lo rilesse più volte e lo tenne sempre con sé, rileggendolo periodicamente, come per abbeverarsene.

     Un altro libro dal quale trasse ispirazione, soprattutto per i temi e per l’accento vagamente ironico o auto-ironico, oltre che per una visione demitizzante dei grandi eventi storici e per una riconsiderazione scanzonata della vita quotidiana, fu “La scoperta dell’America” di Cesare Pascarella. Aveva già letto i “Sonetti” di Gioacchino Belli e quando li rilesse lo colpirono soprattutto quei versi in cui il grande poeta dielettale della Roma dei papi descriveva la vita grama dei poveri in canna, sempre alla ricerca di un motivo per vivere e di un mezzo per sopravvivere. Gli piaceva particolarmente il sonetto “La bona famìja”, perché la descrizione belliana di una serata trascorsa nell’intimità di una povera famiglia povera gli ricordava le tante serate da lui trascorse nel seno della sua stessa famiglia, rispettando lo stesso rituale descritto dal Belli: “a un’or de notte” si sparecchiava la tavola, dopo una cena frugale (“du fronne d’inzalata”, “quarche vorta se famo una frittata”, “quattro noci e la cena è terminata”), una bevuta (“un par d’ora de sgoccetto”), nel caso della sua famiglia da parte del padre Vincenzo, che rimaneva a bere fino a quando non vedeva “er fonno ar bucaletto”), “’na pisciatina” (sempre del padre e dei figli, per evitare di bagnare il letto di notte) e “’na sarvereggina” (da parte della madre, assai legata ad un senso popolaresco della religione e della preghiera) e poi l’andata letto per il riposo notturno.

     Quella poesia gli piaceva in modo particolare, perché gli ricordava il calore delle serate trascorse in famiglia e la tristezza compiaciuta di una povertà che costituiva elemento di incertezza, ma mai di disperazione, e il cui senso rafforzava i rapporti familiari. Così volle cimentarsi anche lui nella descrizione poetica di una di quelle serate trascorse nella sua casa teramana di Via Teatro Antico, di cui aveva una nostalgia che si era fatta via via più grande dopo che era stata abbattuta. Soprattutto nei primi versi, perché poi la sua ispirazione procede per suo conto e per una sua personale via, la descrizione del Belli viene evocata anche nell’uso dei termini, oltre che in quella dei gesti compiuti. La cena frugale della famiglia Sardella è descritta tutta nel primo verso: due verze, una salsiccia e un po’ di pane (che corrispondono all’insalata, alla frittata e alle quattro noci della famiglia Belli); anche sulla sua tavola c’è un piccolo boccale di vino (“‘nu vecalàtte”), così come su quella della famiglia Belli (“er bucaletto”); anche per lui, Alfonso, arriva la notte, che chiude il giorno e la sera, come per il piccolo Gioacchino e la sua famiglia. Ma nella poesia di Sardella c’è una coda descrittiva: mentre il poeta bambino è già a letto e attende l’arrivo del sonno, che non viene, sente le litanie dei preti che celebrano le funzioni o cantano nel vicino seminario e quel suono gli trasmette una malinconia di cui non comprende o non razionalizza le ragioni; poi un altro suono, quello dei gatti in amore del vicino teatro romano (che tutti chiamano anfiteatro) e ancora altri suoni, dal significato per lui misterioso, il verso delle civette, i rintocchi dell’orologio della torre del Duomo, i passi stanchi “strascicati” di un vecchio che rincasa zoppicando e scatarrando, il canto lontano ma percettibile di un ubriaco che confessa a se stesso, “in vino veritas”, come stia annegando la sua disperata malinconia.

     “Via Teàtre Antiche” è una delle più belle poesie intimiste, ma al tempo stesso descrittive di un’intimità fatta di profonda tristezza, di Alfonso Sardella. Caratterizzante è ancora la descrizione di una realtà esterna che viene percepita corrispondente a quella interiore del poeta. Non siamo sul piano della lirica, ma ancora sul piano descrittivo e paesaggistico, ma il vero paesaggio che viene descritto è quello interiore

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