Alfonso Sardella è  la voce più autentica della poesia dialettale popolare teramana, l’erede dei grandi Luigi Brigiotti e Guglielmo Cameli. Ma la sua corda è più lirica e più variegata, non legata mai solo al bozzettismo e ad una visione macchiettistica della vita. La sua poesia è al tempo stesso intima espressione popolare e rivelazione dell’anima, in una continua estrinsecazione del proprio intimo e della propria complessa sensibilità.

     Ho trascorso insieme con Alfonso anni e anni di frequentazione quotidiana, di condivisione di sentimenti e di ansia di ricerca. Sono stato insieme con lui in giorni di gioia e di festa e in giorni di tristezza e di dolore. Ho avuto da Alfonso, un amico sincero, le confidenze più intime, ne ho conosciuto le più recondite aspirazioni; ho conosciuto direttamente da lui i tormenti della sua infanzia, che avevano formato il suo difficile carattere, mettendolo alla prova ogni giorno, in una famiglia dove il reciproco affetto tra genitori e figli era malinconicamente venato dalle difficoltà economiche del dopoguerra e da una condizione sociale che non assicurava tranquillità e opportunità.

     Da giovane brillava per la sua versatilità in tutti gli sport: era un ottimo calciatore, che gli amici avevano soprannominato Bobby Charlton, un resistente tennista e campione incontrastato di salto con l’asta, di cui a Teramo fu il primo insuperato interprete. Per una sfida gli capitò anche di incrociare i guantoni da boxeur sul ring. Era fiero di aver frequentato la Farnesina, a Roma, e di aver intrapreso la professione di docente di educazione fisica entrando dalla porta principale. Ma un giorno si decise a provare a mettere in versi la voce che “gli dittava” dentro. Nacque così “il poeta da marciapiede”, che recitava le sue prime poesie ai nottambuli che popolavano le strade di Teramo e lo ascoltavano con malcelata irrisione. Erano i giorni in cui mi svegliava a volte di mattina, quasi poco dopo l’alba, per annunciarmi al telefono trionfalmente che aveva “fetato”, cioè che aveva fatto l’uovo, come una prolifica gallina, e mi leggeva la poesia che aveva scritto durante la notte. Ricordo che i suoi primi versi erano a volte sghembi, senza ritmo, e quando gli facevo notare che in questo o in quello mancava una sillaba, si incaponiva a voler subito correggere e modificare, per rileggermi, ancora al telefono, poche ore dopo la versione rettificata. Nel corso degli anni la sua tecnica si raffinò e la sua capacità di verseggiatore non fu inferiore a quella, già grande, di poeta, cioè di creatore di immagini e di espressioni alle quali si affidava per rivelare al lettore quel complesso universo che costituiva il groviglio delle sue passioni. Perché se c’è un segreto nella poesia di Sardella, anche in quella in lingua, anche in quella dei suoi acquerelli, è la passione, la grande passione per la sua terra.

     Per Teramo ha avuto una passione sviscerata, così come per la sua famiglia, per il padre, per la madre, per la sorella, così come per la sua gente e il suo dialetto, per la sua storia e le sue tradizioni. Sardella è stato poeta dai forti sentimenti, capace di profondi amori quanto di profondi odii, amava l’amicizia e odiava la slealtà, apprezzava il merito e disprezzava l’infingardaggine e l’ipocrisia. Si dedicò alla ricerca dei proverbi e dei modi di dire dell’Abruzzo teramano con una costanza da certosino e anche quando girovagava in sella alla sua bicicletta, magari vestito da indiano, aveva in tasca la penna e il foglietto di carta su cui appuntare la parola suggeritagli da un artigiano ad un angolo di strada o da un contadino in una campagna sperduta. Sardella aveva capito che anche in quella saggezza popolare che si esprimeva attraverso proverbi e modi di dire c’era la poesia e il senso della storia che vi era celato lo sgomentava, dandogli il senso del tempo e dell’infinito. Alcuni suoi versi sono “gigantescamente” grandi e alcune sue poesie sono destinate a restare come documenti perenni della nostra cultura. La sera in cui accusò per la prima volta il malore che poi lo ha tanto limitato in questi suoi ultimi anni eravamo con lui io e un altro amico, Silvano Toscani, e la nostra presenza rese possibile un soccorso tempestivo. Ebbe così diritto, come diceva facendo fatica a farsi capire, ma non avendo perso il suo spirito beffardo di fronte al destino, “ai minuti di recupero”, come quelli che l‘arbitro accorda per prolungare una partita. Amante come pochi della sua Juventus, forse ancora di più perché, tradendola, quando era a Milano era stato uno dei preparatori atletici delle giovanili dell’Inter, amava spesso ricorrere a metafore calcistiche, sapendo di non poter sfuggire al triplice fischio che segna la fine dell’incontro. Non temeva la morte, ma se ne faceva beffe e in non poche poesie la evoca in contrapposizione alla brevità della vita, che per lui era pur sempre nulla di più che “’n’affacciàte de fenèstre”.

     Il mio ultimo incontro con lui avvenne nella casa di riposo dove trascorreva gli ultimi mesi della sua vita, ringhioso come un leone in gabbia. La sua gabbia era la sua difficoltà nel farsi capire, per la quale si disperava. Quando un amico, andandolo a trovare, gli recitava qualche suo verso, le lacrime gli rigavano il volto, ma la rabbia non gli scompariva dagli occhi e la sua espressione era di sgomento, come quella di quando stava ancora bene ma diceva, sospirando, di avere così tanta paura dei giorni a venire e dei suoi foschi presentimenti. Quel mio ultimo giorno con lui, il giorno della presentazione della riedizione di “Voce de pòpule”, da lui tanto attesa e desiderata, fu felice di vedere tanti amici accanto a sé. Ma all’ultimo momento non voleva scendere nella sala dove tutti lo attendevano e ne stava steso sul letto, abbandonato e riottoso. Fu difficile convincerlo e alla fine scese e partecipò alla sua festa. Quella riedizione la stava curando da anni prima del malore che lo aveva impedito e ce l’aveva con noi, con me e con Silvano Toscani, e con l’editore, Bruno Casalena, di Artemia, perché stavamo impiegando troppo tempo a mantenere la promessa che gli avevamo fatto di finire il suo lavoro e di pubblicarlo prima che gli fosse preclusa la possibilità di vederlo stampato. Quel giorno, alla fine, fu contento della nostra promessa mantenuta. Lo salutai carezzandolo al volto e risalì nella sua camera spinto da un assistente sulla sua carrozzella. Non sapevo, anche se lo temevo, che non lo avrei più rivisto. Con la sua morte, i teramani persero il loro più grande poeta.

 

Le poesie con note e commento

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