Le poesie

Negli ultimi tempi della nostra lunga amicizia, da poco prima che si ammalasse a poco prima che morisse, insistetti più volte con lui sull’importanza che la sua poesia avrebbe dovuto sopravvivergli, e questo lo avrebbe fatto certamente, ma con un corredo critico e sistematico. Perché la poesia dialettale, fatta soprattutto per essere letta, quando viene scritta non facilmente leggibile, non è agevolmente compresa da tutti e senza un apparato ermeneutico, un riferimento ai contesti ispirativi e biografici, senza note esplicative di termini e vocaboli spesso troppo antichi e desueti, o locali, per essere colti e capiti, con il passare del tempo può scolorire e diventare criptica. Alfonso, sia pure a fatica, perché le note e le spiegazioni gli sembrava potessero far diventare arida la lettura di versi, come purtroppo era capitato di sperimentare a lui quando le poesie le doveva imparare a scuola, aveva compreso l’importanza di ciò che gli suggerivo. Ma non  ebbe poi le forze e il tempo di avviarsi lungo un percorso che sarebbe stato arduo. Per devozione all’amico e riconoscimento al poeta, voglio offrire ai lettori di questo mensile un mio contributo, apportando un piccolo corredo di note esplicative alla poesia dedicata da Alfonso alla Pasqua, che ripropongo per una lettura meditata, auspicando che negli anni a venire l’intera produzione poetica di Alfonso possa essere ripubblicata in una edizione critica commentata.

Mo' 'rve' Pasque

pubblicato su "La Città" mensile, Teramo, numero di marzo 2010, pp. 26-27

Mo ‘rve’ Pasque*

 

 Cannellore cannellore da l’immerne same fore.(1)

Febbraje à ggià passate, t’artruve ‘mmezz’a marze:

n’andranne se n’à ìte e mo’ se n’arve’ Pasque.

 

Nn’ahè cchiù mo’ lli timbe de pizze e pezzacole,(2)

Seppulcre(3) e prucessione ‘nghe Criste ‘n carrettone;(4)

de Criste mo’ n’è tinde che sule se ne more!(5)

 

De ggenda cunusciùte, magare pure amice,

si quinde nn’arcunosce…(6) oppure se n’à ite?(7)

Cardàcchje(8) s’à ‘ngrandìte… avòje tu a dice!(9)

 

Ca’ vvodde arhuarde arrète, ma sì tu com’ahè?

E’ come ‘na menèstre ch’arschille pe’ la sâre:

nen te’ chhiù llu sapore… nn’ahè cchiù tale e quale!(10)

 

Li cille a la matine, llà ffore a lu balcone,

me pare che me cande: “Ci-ccì… Ci-ccì… cchiù-cchiù.

Che vu’ che t’arcundàme… se tu ‘ngi-a-crite cchiù?”(11)

 

E allore che vu’ fa? A chi lu vi’ a ‘rcundà?

Te fi’ ‘na cammenìte su ‘bballe pe’ li Tìje(12)

e mendre pinze a addre te mitte a fischiettà.

 

*da Alfonso Sardella, "L'uddeme landò", CE.TI. Teramo, 1978, p. 83.

E’ di nuovo Pasqua

 

Candelora candelora dall’inverno siamo fuori.

Febbraio è già passato, ti ritrovi a metà marzo,

un altro anno se n’è andato, è di nuovo Pasqua.

 

Sono lontani i tempi di pizze e pizzacole,

dei sepolcri e della processione di Cristo morto;

adesso sono tanti i poveri Cristi che muoiono soli.

 

Delle persone conosciute, magari anche amici,

sai quanti non ne riconosco… oppure sono morti?

Cartecchio si è ingrandito, hai voglia a dire.

 

Qualche volta mi guardo indietro, sai com’è?

E’ come una minestra che riscaldi per la sera:

non ha più il sapore… non è tale e quale.

 

Gli uccelli al mattino, fuori al balcone,

sembra che mi cantino: “Ci-cci… Ci-cci… cchiù.

Cosa vuoi che ti raccontiamo… se non ci credi più?

 

E allora cosa vuoi fare? A chi vai a raccontarlo?

Ti fai una camminata su verso i Tigli

e mentre pensi ad altro, ti metti a fischiettare.           

 

                 

 

 

Note

(1) “Candelora, candelora, dall’inverno siamo fuori”. E’ un detto popolare, tra i tanti ai quali Sardella fa riferimento nella sua poetica, attingendo spesso ai proverbi e ai modi di dire della cultura contadina.

(2)La pezzacole’ è “un dolcetto pasquale a forma di pagnottella piatta e tondeggiante, con manichetta, al centro della quale si affonda un uovo sodo fissato con una crociera sempre di pasta, e poi cotta al forno” [da A. SARDELLA, “Lu languazazze. Raccolta di vocaboli dialettali teramani”, Tipografia 2000, Mosciano Sant’Angelo (TE), 2001].

(3) Riferito al rito dei Sepolcri, che viene compiuto a partire dal tardo pomeriggio del giovedì, quando i fedeli si recano nelle chiese a visitare i tabernacoli esposti sugli altari della reposizione. Si tratta di una usanza assai radicata nel popolo e assai sentita dai fedeli, tanto da costituire il momento più significativo e partecipato del “Triduo Pasquale”.

(4)Lu carrettone’ è il carro funebre, in questo caso quello sul quale viene portato il Cristo morto nella processione del venerdì santo, quello che precede la Pasqua.

(5) L’autore qui relaziona la morte di Cristo con quella dei tanti “poveri Cristi” che muoiono soli, senza avere parenti o amici che siano loro vicini nell’ora del trapasso.

(6) Propriamente “non riconosco”, e quindi “quanti, delle persone che conosco, alcuni anche amici, non ne riconosco”, perché, magari, hanno cambiato di molto la propria fisionomia. Ma il termine, più sottilmente, vuol anche significare: “non li ho rivisti da tempo”, anticipando così, con i tre puntini sospesi, la triste ipotesi che non siano stati più incontrati  semplicemente perché sono morti, all’insaputa dello stesso autore.

(7)Se ne sono andati”, cioè sono morti.

(8) Cartecchio è il cimitero di Teramo, che si trova nella zona omonima. Si è ingrandito per la costruzione di nuovi loculi, resasi necessaria per accogliere nuove sepolture.

(9) “Hai voglia tu a dire”, espressione popolare che significa “qualunque cosa tu possa dire, la situazione è quella che è”.

(10) Il recupero di vecchie tradizioni, tentando di ripensare al passato, non ne restituisce il senso e il gusto, così come una minestra riscaldata non conserva il proprio sapore.

(11) Una volta i canti degli uccelli avevano per il poeta adolescente il significato di intriganti racconti e di affascinanti lusinghe, ma ora al poeta è maturo, cadute le speranze e le illusioni, quei racconto non sono più credibili e non hanno più senso.

(11) ‘I Tigli’ vengono comunemente chiamati i giardini che si trovano a Teramo in viale Mazzini, vicino a Piazza Garibaldi, un tempo luogo deputato ai giochi dei ragazzi e alle partite di pallone.

 

Commento

Mancavano pochi giorni all’inizio della Settimana Santa del 1978. Alfonso mi svegliò telefonandomi di primo mattino, come faceva sempre quando doveva annunciarmi di “aver fetato”, cioè di aver fatto l’uovo. Era l’espressione che usava per annunciare che aveva scritto un’altra poesia, in una delle sue notti insonni, quando la vena sorgiva da cui nascevano i suoi versi era in pieno vigore. Mi lesse al telefono i versi, che cercai di seguire al meglio, pur essendo ancora mezzo assonnato. Era una poesia sulla Pasqua imminente, sarebbe arrivata di marzo, il 26. C’era qualche verso sbilenco; glielo dissi, con franchezza, come facevo sempre quando ne trovavo qualcuno. Mi disse che avrebbe aggiustato la poesia e sarebbe venuta a mostrarmela nella scuola dove insegnavo. Venne durante la ricreazione. Aveva aggiustato versi, ritmi e accenti. Ormai aveva acquisito una certa perizia, dopo un paio di anni dal suo esordio ai microfoni di Radio Teramo In, quando come “poeta da marciapiede” (così gli piaceva definirsi), leggeva le sue prime composizioni nella trasmissione che conducevamo io e Franco Baiocchi e che si chiamava “L’ora dell’intellettuale”. Franco andava in giro per le strade di Teramo e incontrava i soliti nottambuli, li intervistava e ciascuno raccontava un suo pezzo di storia di vita. Alfonso Sardella la storia della sua vita la raccontava i versi. Le feste lo rendevano triste e tutte, nessuna esclusa, erano per lui, l’occasione di rivisitare con l’animo antiche sofferenze e non sopiti patimenti. Tutto quell’insieme di sofferte esperienze adolescenziali e familiari, a lungo represso e conservato in segreto, era esploso, il tappo che chiudeva la sua bottiglia di compresse emozioni era saltato e una linfa poetica fuorusciva senza che egli potesse o sapesse dominarne il flusso. Faticava a contenerlo e dargli una dimensione che tenesse conto delle esigenze di forma e di ritmi, delle quali solo a poco a poco e con fatica seppe a mano a mano imparare a tener conto. Alfonso era una artista, ma per diventare il più grande poeta contemporaneo del vernacolo teramano dovette piegarsi a diventare un artigiano, un artigiano della poesia, così come suo padre, “Vincenze lu vetrare”, era stato un artigiano del vetro. “Mo’ ‘rve Pasque” fu la poesia della Pasqua del 1978 di Alfonso Sardella e fu inserita nel suo primo volume di poesia “Lùddeme landò”, che vide la luce poco prima di Natale di quello stesso anno. In quel volume fu inserita un’altra poesia, dedicata proprio al Natale, ma soprattutto al recupero malinconico e nostalgico delle atmosfere dei Natali da lui vissuti in famiglia in quella casa vicina all’anfiteatro, dove aveva cullato i suoi sogni di bambino, con gli occhi sgranati nel vedere dai vetri delle finestre la magia dei fiocchi di neve che scendevano “fodde fodde”, tanto da potergli far esclamare con gioia: “Attacche… à ggià ‘ngasciàte”. Da Pasqua a Natale, passando per altre feste ed altre ricorrenze, pubbliche e private, da una malinconia all’altra, con un recupero della memoria che ha saputo tramutarsi in pura creazione artistica.

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