Le poesie

Natale

pubblicato su "La Città" mensile, Teramo, numero di aprile 2010, pp. 36-37

Natale*

 

Aspitte ‘nu mumende, me sembre ca ère l’anne.

Ma che ‘mburtanze tè? Ere Natale! (1)

 

Lla ffore fodde fodde…(2) Oh, Ddìje cume je dâve! (3)

Nenguave a cil’aperte li fiucche de la nâve

su ‘ngime a li reccùne… e su li puverùme. (4)

 

Li passaritte svilde de llà l’anfiteatre,(5)

svulazze(6) a precepìzzje ‘nde li schiuppettàte;

s’arpuse chjuchjulènne(7)  su li checcherùne(8)

e sobbre a li renghìre de logge e balecùne.

 

Attacche… à ggià ‘ngasciàte…(9) ve’ da la mundagne!(10)

Lu fuche de la stufe mo cralle ‘nghe li lâgne; (11)

sobbre a la furnacèlle burbotte la pignìte:

la schiume, piane piane, da fore se n’a scite.

 

Jo sotte, pe’ la strade, la ggende va cundende:

- Ahùrje, mastr’Andò… mannagge che nenguènde! (12)

Faciàmece ‘nu litre ‘nghe ddo-tre papatìlle…(13)

…chista’anne fa ‘nu frâdde che fa ‘rbevì li ‘nguille. -

 

Da ‘nu nasille scole ddo smerfelìtte(14) uhuàle,

…je sta ‘nzignà la mamme la nâve cuma cale!

E mendre ‘n’ora sande rendocche llà lu Ddome

tu scendi dalle stelle t’arrive ‘nghe ‘nu sone. (15)

 

Ahè li zambugnàre… dda mo’ che v’aspettàve!

Faciatem’arsendì ssa lagna pasturale. (16)

Ma chi ve l’a ‘mbaràte ssu sone de li stelle?

Ssi note quasce uhuàle, che fa rriccì la pelle?

 

A’ state la mundàgne, lundàne e ‘ngappucciàte,

oppure ahè lu piande de mille pecurèlle,

che parte pe’ li Puje lascènne la Majèlle? (17)

Sunàte n’andrà cì… peccà ve ne scappàte? (18)

 

Lla sobbre a la credènze, lu bbùe e l’asenèlle,

so’ fatte lu presèpje ‘lluccìte da ‘na stelle.

- Mammà… lu fije mi… ma che stì ccumbenì? (19)

- Oh, ma’, ma che nnu vite… che nâve sta vvenì?

 

Armâtte la farìne qua sobbre a sti cullìne

e n’andra cì de paje qua sotte a lu Bambine.

Quest’anne l’invernate è longhe pe’ ddavàre, (20)

jo ‘mbacce a lu pundòne l’à dâtte lu ‘mbrellare…

 

Purtave la mandèlle, tusciave e scatarràve. - (21)

 

*da Alfonso Sardella, "L'uddeme landò", CE.TI. Teramo, 1978, p. 128.

Natale

 

Aspetta un momento, mi sembra che fosse l’anno.

Ma che importanza ha? Era Natale!.

 

Là fuori fitta fitta… Oh, Dio, come nevicava.

Scendevano a cielo aperto i fiocchi di neve

sopra i ricconi e sopra i poveruomini.

 

I piccoli passeri svelti dell’anfiteatro

svolazzano veloci come le schioppettate;

riposano cinguettando sugli isolatori dei pali

e sopra le ringhiere delle logge e dei balconi.

 

Attacca… lega sul terreno, viene dalla montagna.

Il fuoco della stufa adesso crepita con la legna;

sopra la fornacella borbotta la pignatta:

la schiuma, piano piano, è fuoruscita.

 

Sotto, in strada, la gente passa contenta

- Auguri, mastr’Antonio… accidenti, che nevicata!

Facciamoci un litro con due o tre pepatelli…

…quest’anno fa un freddo che fa resuscitare le anguille.

 

Da un nasino colano due moccoletti uguali,

… la mamma gli sta indicando come scende la neve.

E mentre rintocca un’ora santa nel Duomo

tu scendi dalle stelle arriva con un suono.

 

Sono gli zampognari… da quanto vi aspettavo!

Fatemi risentire quella lagna pastorale.

Ma chi ve l’ha insegnata quella musica delle stelle?

Quelle note quasi uguali, che fanno accapponare la pelle?

 

E’ stata la montagna, lontana e incappucciata,

oppure è stato il pianto di mille pecorelle,

che partono per le Puglie lasciando la Maiella?

Suonate un altro po’… perché fuggite via?

 

Là sopra la credenza, il bue e l’asinello,

ho fatto il presepio illuminato da una stella.

- Mammà, figlio mio… che stai combinando?

- Oh mamma, ma non lo vedi… che neve viene?

 

Rimetto la farina sopra queste colline

e un altro po’ di paglia sotto al Bambino.

Quest’anno l’invernata è lunga davvero,

giù davanti all’angolo l’ha detto l’ombrellaio…

 

Portava il mantello, tossiva e scatarrava.

 

 

 

 

Note

(1)  Splendido e folgorante esordio. Il poeta invita il lettore, o il suo interlocutore in un immaginario colloquio, a pazientare in attesa che egli possa ricordarsi l’anno preciso di un Natale della sua infanzia, che intende evocare nel recupero di una memoria che l’età matura rende confusa. Poi rinuncia alla precisione del ricordo, che ne farebbe svanire la magia, e mette in risalto ciò che è più importante: era Natale, con tutta l’affascinante atmosfera e lo straordinario carico di aspettative che la festa trasmetteva al poeta bambino, tanto più con l’arrivo della neve.

(2) Fodde fodde, lett, fitta fitta. Il fascino della neve è agli occhi di un bambino tanto più grande quanto più i fiocchi scendono fitti.

(3) Lett. “come gli dava”, espressione tipica con la quale si intende mettere in evidenza l’intensità di un’azione o di un’attività, in questo caso del nevicare.

(4) Fa capolino un tema sociale (non certamente estraneo alla poetica di Sardella), quello dell’eguaglianza di ricchi e poveri davanti agli eventi naturali, in questo caso meteorologici, di cui la caduta della neve è quella che al poeta meglio evoca la “falce” manzoniana che eguaglia tutte le erbe del prato, oggetto di una lezione sicuramente appresa a scuola. Altrove Sardella richiama, direttamente o indirettamente, lo stesso concetto, mettendo in evidenza un’identica eguaglianza del ricco e del povero davanti al destino e alla sorte, o, specificamente, alla morte.

 (5) In molte poesie Sardella evoca il ricordo della sua antica abitazione (non più esistente perché abbattuta), dove aveva vissuto la sua infanzia, non sempre felice, ma piena di sogni e di incantamento, che si trovava proprio davanti alle rovine dell’antico teatro romano, da tutti indicate a Teramo come “l’anfiteatro”, con un errore inconsapevole, essendo in realtà i resti dell’anfiteatro situati accanto a quelli del teatro romano, ma non distinti da quest’ultimo. La finestra della sua camera da letto si affacciava proprio sul teatro romano, nel cui spazio aereo vedeva e sentiva frotte di uccelli in volo.

(6) L’autore passa qui dall’indicativo imperfetto dei primi versi, tipico di una rievocazione, all’indicativo presente, che non abbandonerà più in tutte le descrizioni che seguiranno, facendo intendere che il passato si è attualizzato nella sua mente, tornando a rivivere e ridandogli le stesse emozioni di un tempo.

(7) Da chjuchjulì, lett. “cinguettare, pigolare”.

(8) Pl. di checcheròne, isolatore di porcellana, a forma di bicchiere (da cui si origina il termine), posto sulla sommità dei vecchi pali della luce, al quale era sospeso il filo elettrico.

(9) Attacche, lett. attacca, figurativo dei fiocchi di neve la cui consistenza e la cui intensità sono tali da non liquefarsi subito dopo aver toccato il terreno, ma da “legare”, cioè di rimanere visibili e cominciare a formare un primo leggerissimo strato di neve [’ngascià, da cui il participio passato ‘ngasciàte, termine che assimila lo strato di neve a quello del formaggio grattugiato (casce)]. La sequenza: “attacche… a ggià ‘ngasciàte”, era quella con la quale i bambini erano soliti accompagnare, a meravigliato e compiaciuto commento, le nevicate che non si risolvevano in una delusione determinata dall’evento contrario, cioè il mancato formarsi di uno strato di neve. Assai spesso la sequenza acquistava, più che il sapore di un commento, quello di una formula quasi magica, piena di aspettativa e di speranza, quasi con finalità propiziatoria. 

 (10) Soprattutto al primo apparire della neve, ma in genere ad ogni nevicata, ci si chiedeva sempre se essa venisse dal mare o dalla montagna, per capire se i fiocchi avrebbero attecchito più o meno facilmente. La credenza popolare riteneva, falsamente, che se la neve fosse arrivata dalla montagna sarebbe stata più abbondante. In realtà oggi è parere diffuso che nell’Italia centrale essa sia più abbondante se proveniente dall’area balcanica, e cioè dal mare.

(11) Il fuoco che crepita nella stufa (in casa la si chiamava “cucina economica”) dava allegria perché voleva dire che era stata messa ad ardere, cosa che avveniva di rado, legna secca, che si sarebbe presto consumata, invece della consueta legna verde, preferita perché più durevole, ma tale da non produrre una fiamma bella a vedersi. In occasione del Natale, in un desiderio di festa e di allegria, si sacrificava nella stufa qualche pezzo della preziosa legna secca, con un malcelato senso di colpa per l’abbandonarsi allo spreco nella povera economia di una famiglia non certo benestante, abituata a lesinare i consumi.

(12) La neve cadente in abbondanza.

(13) Pl. di papatìlle (lett. pepatello), tipico dolcetto natalizio teramano, un po’ duro da masticare.

(14) Dimin. di smèrfele, muco colante dal naso (moccolo), spesso causato da raffreddore.

(15) Il poeta immagina di risentire, contemporaneamente e miscelati tra loro, il rintoccare della mezzanotte di Natale (ora santa) dell’orologio del campanile del Duomo, che si trovava proprio di fronte alla finestra della sua camera da letto, e il suono degli zampognari appena arrivati in città dalla montagna.

(16) L’autore qui gioca su un doppio registro temporale. Da una parte rievoca la sua sospirata attesa infantile dell’arrivo degli zampognari; dall’altra evoca il suo desiderio di riascoltare la loro nenia adesso che è maturo, ma è ancora sensibile alla fascinazione del suono delle zampogne e delle ciaramelle.

(17) Accenno alla transumanza, cioè al trasferimento invernale delle pecore in Puglia lungo i “tratturi antichi”, già cantati da Gabriele D’Annunzio nella sua poesia Settembre. Il trasferimento qui rievocato è quello dai monti della Maiella, più distanti dal teramano, e non quello dai Monti della Laga, più vicini, per pura esigenza di rima.

(18) L’autore si pone nuovamente su un doppio registro temporale, alludendo alla sua tristezza di bambino nel momento in cui il suono delle zampogne si allontanava e a quella che prova adesso, quando quello stesso suono va svanendo nella sua commossa rievocazione, dopo essersi ripresentato alla memoria per qualche breve istante. Il verso esprime il desiderio di non veder svanire non solo il ricordo attuale di quella nenia, ma tutti gli altri ricordi della sua infanzia che affiorano nella sua memoria l’uno dopo l’altro o si affollano tutti insieme.

(19) Il poeta bambino tenta di adeguare il presepe al paesaggio innevato che vede dalla sua finestra, così fa piovere della farina sulle colline di carta e sulle statuette; ma lo fa maldestramente, sì che la mamma lo rimprovera bonariamente.

(20) Il riferimento all’inverno della sua vita, l’età della vecchiaia presagita e temuta, è palese.

(21) La figura dell’ombrellaio (che corrisponde ad un reale personaggio della vecchia Teramo, “Vincenze l’umbrellàre”, che aveva un angusto sgabuzzino in cui riparava ombrelli all’angolo di via Anfiteatro) assurge qui a funzione profetica, basata sulla saggezza popolare, conclamata anche nelle immagini del mantello indossato e dalla tosse catarrosa, di per sé simboli di una vecchiaia povera.

 

Commento

 

     Alfonso Sardella scrisse questa poesia qualche settimana prima del Natale del 1977. Come spesso gli accadeva, la prima stesura fu realizzata di getto, prodotto di una improvvisa ispirazione. L’avvicinarsi della festa che più amava, perché gli rammentava il calore familiare che aveva riscaldato i Natali della sua infanzia, gli aveva risvegliato  il ricordo di una notte di Natale passata a rimirare dalla finestra della sua camera i fiocchi di neve che cominciavano a cadere e ad imbiancare il paesaggio che aveva davanti: le rovine del Teatro Romano (che lui, come tutti, conosceva come l’antiteatro) e il Duomo. In seguito, quando aveva acquisito una maggiore padronanza delle tecniche di versificazione, realizzò una seconda stesura, conservando la struttura della poesia, ma provando a perfezionare le rime baciate, senza tuttavia andare oltre il limite di elaborazione che egli riteneva invalicabile per non disperdere la genuinità della sua ispirazione. Questo è il motivo per cui si alternano strofe (tutte di quattro versi, salvo l’ultimo verso, isolato, che chiude mirabilmente la composizione), con rime a schema AA-BB e strofe con rime a schema AB-BA ed altre ancora in cui invece della rima ci si accontenta dell’assonanza e in qualche caso si rinuncia perfino a quella.

      Ma la forza espressiva ed evocativa della poesia è così forte (questo accade assai spesso nella poetica di Sardella) che il lettore, anche il più avveduto ed esigente) viene attratto da quella forza e distolto dall’attenzione che può essere rivolta alla struttura e all’impianto o allo schema delle rime. Pubblicata dall’autore ad un anno di distanza dalla prima stesura, nel suo primo volume di versi, "Luddeme landò", Natale si annovera tra le poesie più ispirate. Il passato affiora e diventa presente, anche nei tempi verbali, e presagisce un futuro incerto e temuto, con quel riferimento ad un invernata lunga (prevista dall’anonimo ombrellaio) che rappresenta la metafora della vecchiaia, una stagione della vita che Sardella sentiva incombente e alla quale pensava con sempre maggiore malinconia e maggiore angoscia con l’incedere degli anni. Non si può non segnalare la valenza poetica del dialogo tra la madre e il figlio, desideroso di adattare il presepe alla situazione che si era venuta determinando con la nevicata mediante un’aggiunta, malaccorta e perciò teneramente rimproverata, di farina sulle colline di carta e sulle statuette. Al tempo stesso eloquente e significativa è l’assenza in questa poesia della figura del padre, tanto importante e centrale nella poetica di Sardella, ma risultata tante altre volte assente nell’infanzia ingenua e triste del poeta, trascorsa in una lunga, quanto temuta, attesa del suo ritorno a casa.

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