Proseguimmo lungo i canaloni,
affrontando una fatica che si fece sempre più dura,
passammo nel vallone tra il Corno Grande e il Corno
Piccolo e con grande emozione affrontammo
l’attraversamento del ghiacciaio, senza corde di
sicurezza, in fila indiana, lungo uno stretto
viottolo aperto da chi ci aveva preceduto. Fu
l’unico momento in cui ci trovammo di fronte ad un
rischio, sia pure calcolato. Arrivammo sulla vetta
del Gran Sasso, Monte Corno, a metri 2.914, che
ormai era mattino. Peccato per la foschia e per
qualche nuvola che ci impedì di verificare se
davvero da quell’altezza si vedessero entrambi i
mari, l’Adriatico e il Tirreno. Ma lo spettacolo era
ugualmente grandioso. Mettemmo la nostra firma sul
libro che si trovava custodito dentro una scatola
fissata alla roccia, dove poi lo riponemmo per
tenerlo a diposizione di chi ci avrebbe seguito
nella scalata alla vetta più alta degli Appennini.
Per me scendere fu più difficile che
salire, perché era stato sempre così e
ancora non avevo imparato bene le tecniche di
discesa. Non ero arrivato in vetta tra gli ultimi,
ma quasi tra i primi; arrivai invece al punto dove
finiva la discesa, ai Prati, tra gli ultimi.
Tornammo a Pietracamela sul camion che ci aveva
aspettato, stanchi, ma felici e quella sera dormimmo
il sonno dei giusti. Sono tornato a Pietracamela e
ai Prati di Tivo più volte, nelle varie stagioni
della mia vita, anche se non per sciare, visto che
non ho mai imparato.
Ricordo l’esperienza di una
settimana bianca con i miei alunni e con la mia
famiglia, ricordo le visite che facevo al mitico
Brancastello (alias Giovanni Ferrante) che si
accampava ai Prati con la sua roulotte.
Ricordo anche una mia permanenza nel campeggio che
c’era allora nella mia roulotte, in cui una volta
rimanemmo costretti dalla troppa neve io e mia
figlia, impossibilitati a tornare a Teramo. Ricordo
che, non sapendo assolutamente cucinare, fui
assistito via radio dai miei amici CB, con il
baracchino, nella preparazione di un brodino coi
dadi, seguendo le istruzioni che via via mi venivano
date.
Insomma, mi legano a Pietracamela
e ai Prati di Tivo tanti ricordi, a partire dalla
mia adolescenza fino alla maturità avanzata. In
vecchiaia sono tornato poche volte, anzi, a
pensarci, quasi mai. Ma ho ripensato a questi
“nostri” luoghi ogni volta che mi sono trovato, nel
Nord, in altri luoghi dove, grazie alla neve, si
gode di una prospera economia e si vive anche e
soprattutto grazie all’industria delle vacanze
invernali. Ho già segnalato in questa rubrica come
nei dintorni di Asiago io abbia visto sciare
singoli, gruppi e allievi di scuole di sci lungo
pendii rivelatisi poi in estate delle semplici
scarpate. Eppure, attorno a queste scarpate erano in
funzione alberghi, ristoranti e impianti di risalita
all’avanguardia. Ogni volta ho ripensato a
Pietracamela, ai Prati di Tivo, a Prato Selva
(un’altra località dove sono stato, sia pure in più
rare occasioni) e ogni volta mi sono detto che i
“nostri” luoghi non hanno nulla da invidiare ad
altri più noti, più frequentati e soprattutto
maggiormente valorizzati e sfruttati per produrre
ricchezza e risorse.
La domanda ogni volta è stata la stessa,
e torno a pormela adesso che ancora una volta si
paventano la chiusura degli impianti di Prati di
Tivo e la fine definitiva di ogni sogno di tenerli
aperti e pienamente funzionanti e produttivi. Cosa
c’è che non va? Cos’è che non funziona a
Pietracamela e a Fano Adriano? Certo che qualcosa
non vada basterebbe a dimostrarlo che per un certo
periodo gli elettori scelsero come sindaco un
autista dell’Atac di Roma, il cui unico legame con
il paese era la moglie (che vi era nata), e che si
occupava del comune solo nei fine settimana. Che
qualcosa non vada lo si capisce da qualche strano
discorso, difficile da seguire, che ho sentito fare
da personaggi alquanto strani e straniti nelle
televisioni locali, affannati a spiegare quali
fossero i problemi degli impianti di risalita senza
però riuscire a spiegarlo in modo da farsi capire.
Ancora oggi non ho capito,
anche se non mi sono mai dedicato ad approfondire le
cause e le spiegazioni. Non voglio farlo. Non mi
interessa. Non voglio perdermi dietro le parole e le
chiacchiere. Non voglio sentirmi sperduto in un
labirinto e aggrovigliato in una matassa di cause e
di concause. So soltanto che a Pietracamela e ai
Prati di Tivo c’è una miniera d’oro, ma che nessuno
vuole o è in gradi di scavare per trovare l’oro e
metterlo a frutto. C’è una ricchezza potenziale
enorme e si vive in povertà perché non si hanno le
capacità di darle attuazione. Non mi interessano le
colpe e le responsabilità. Sono di tutti e di
nessuno. Dico solo che è una vergogna. Faccio una
proposta che è in realtà una provocazione.
Visto che la
nostra montagna non la possiamo vendere
o affittare spostandola al nord, dove saprebbero
cavarne l’oro che nasconde, vendiamola o
affittiamola a qualcuno del nord che voglia venire a
prendersela. Diamogliela, cediamola, vendiamola e
consentiamo a chi la compra o l’affitta di farci
quello che vuole. Certamente la gestirà al meglio e
diventerà ricco, straricco. Accontentiamoci che di
quella ricchezza ci dia ogni tanto una piccola
elemosina. Sarà già tanto, più di quello che da quel
nostro tesoro ricaviamo adesso.
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