Il corrosivo del 21 ottobre 2014

 

Vendiamo il Gran Sasso

      

Partimmo da Pietracamela verso l’una di notte. Salimmo su un camion, non su un pullman. Eravamo giovani o giovanissimi, io avevo sedici anni o poco più e dormivo con i miei compagni del campeggio estivo dell’Azione Cattolica (ahimé, ne ho fatto parte anche io) nei locali della scuola elementare. Con noi c’erano diversi accompagnatori, tra i quali un giovanissimo Alberto Aiardi. Scendemmo dal camion sul piazza dei Prati di Tivo (il percorso a piedi dal paese ai Prati ci era stato risparmiato, vista la fatica che avremmo dovuto affrontare) e iniziammo la salita verso la Madonnina. Albeggiava, quando arrivammo. Dalla Madonnina continuammo a salire e dopo qualche tempo arrivammo al Rifugio Franchetti.

 

     Proseguimmo lungo i canaloni, affrontando una fatica che si fece sempre più dura, passammo nel vallone tra il Corno Grande e il Corno Piccolo e con grande emozione affrontammo l’attraversamento del ghiacciaio, senza corde di sicurezza, in fila indiana, lungo uno stretto viottolo aperto da chi ci aveva preceduto. Fu l’unico momento in cui ci trovammo di fronte ad un rischio, sia pure calcolato. Arrivammo sulla vetta del Gran Sasso, Monte Corno, a metri 2.914, che ormai era mattino. Peccato per la foschia e per qualche nuvola che ci impedì di verificare se davvero da quell’altezza si vedessero entrambi i mari, l’Adriatico e il Tirreno. Ma lo spettacolo era ugualmente grandioso. Mettemmo la nostra firma sul libro che si trovava custodito dentro una scatola fissata alla roccia, dove poi lo riponemmo per tenerlo a diposizione di chi ci avrebbe seguito nella scalata alla vetta più alta degli Appennini.
    
Per me scendere fu più difficile che salire, perché era stato sempre così e ancora non avevo imparato bene le tecniche di discesa. Non ero arrivato in vetta tra gli ultimi, ma quasi tra i primi; arrivai invece al punto dove finiva la discesa, ai Prati, tra gli ultimi. Tornammo a Pietracamela sul camion che ci aveva aspettato, stanchi, ma felici e quella sera dormimmo il sonno dei giusti. Sono tornato a Pietracamela e ai Prati di Tivo più volte, nelle varie stagioni della mia vita, anche se non per sciare, visto che non ho mai imparato.
    
Ricordo l’esperienza di una settimana bianca con i miei alunni e con la mia famiglia, ricordo le visite che facevo al mitico Brancastello (alias Giovanni Ferrante) che si accampava ai Prati con la sua roulotte.  Ricordo anche una mia permanenza nel campeggio che c’era allora nella mia roulotte, in cui una volta rimanemmo costretti dalla troppa neve io e mia figlia, impossibilitati a tornare a Teramo. Ricordo che, non sapendo assolutamente cucinare, fui assistito via radio dai miei amici CB, con il baracchino, nella preparazione di un brodino coi dadi, seguendo le istruzioni che via via mi venivano date.
    
Insomma, mi legano a Pietracamela e ai Prati di Tivo tanti ricordi, a partire dalla mia adolescenza fino alla maturità avanzata. In vecchiaia sono tornato poche volte, anzi, a pensarci, quasi mai. Ma ho ripensato a questi “nostri” luoghi ogni volta che mi sono trovato, nel Nord, in altri luoghi dove, grazie alla neve, si gode di una prospera economia e si vive anche e soprattutto grazie all’industria delle vacanze invernali. Ho già segnalato in questa rubrica come nei dintorni di Asiago io abbia visto sciare singoli, gruppi e allievi di scuole di sci lungo pendii rivelatisi poi in estate delle semplici scarpate. Eppure, attorno a queste scarpate erano in funzione alberghi, ristoranti e impianti di risalita all’avanguardia. Ogni volta ho ripensato a Pietracamela, ai Prati di Tivo, a Prato Selva (un’altra località dove sono stato, sia pure in più rare occasioni) e ogni volta mi sono detto che i “nostri” luoghi non hanno nulla da invidiare ad altri più noti, più frequentati e soprattutto maggiormente valorizzati e sfruttati per produrre ricchezza e risorse.
    
La domanda ogni volta è stata la stessa, e torno a pormela adesso che ancora una volta si paventano la chiusura degli impianti di Prati di Tivo e la fine definitiva di ogni sogno di tenerli aperti e pienamente funzionanti e produttivi. Cosa c’è che non va? Cos’è che non funziona a Pietracamela e a Fano Adriano? Certo che qualcosa non vada basterebbe a dimostrarlo che per un certo periodo gli elettori scelsero come sindaco un autista dell’Atac di Roma, il cui unico legame con il paese era la moglie (che vi era nata), e che si occupava del comune solo nei fine settimana. Che qualcosa non vada lo si capisce da qualche strano discorso, difficile da seguire, che ho sentito fare da personaggi alquanto strani e straniti nelle televisioni locali, affannati a spiegare quali fossero i problemi degli impianti di risalita senza però riuscire a spiegarlo in modo da farsi capire.
    
Ancora oggi non ho capito, anche se non mi sono mai dedicato ad approfondire le cause e le spiegazioni. Non voglio farlo. Non mi interessa. Non voglio perdermi dietro le parole e le chiacchiere. Non voglio sentirmi sperduto in un labirinto e aggrovigliato in una matassa di cause e di concause. So soltanto che a Pietracamela e ai Prati di Tivo c’è una miniera d’oro, ma che nessuno vuole o è in gradi di scavare per trovare l’oro e metterlo a frutto. C’è una ricchezza potenziale enorme e si vive in povertà perché non si hanno le capacità di darle attuazione. Non mi interessano le colpe e le responsabilità. Sono di tutti e di nessuno. Dico solo che è una vergogna. Faccio una proposta che è in realtà una provocazione.
     Visto che la nostra montagna non la possiamo vendere
o affittare spostandola al nord, dove saprebbero cavarne l’oro che nasconde, vendiamola o affittiamola a qualcuno del nord che voglia venire a prendersela. Diamogliela, cediamola, vendiamola e consentiamo a chi la compra o l’affitta di farci quello che vuole. Certamente la gestirà al meglio e diventerà ricco, straricco. Accontentiamoci che di quella ricchezza ci dia ogni tanto una piccola elemosina. Sarà già tanto, più di quello che da quel nostro tesoro ricaviamo adesso.