Il corrosivo del 17 ottobre 2014

 

Teramo come Las Vegas?

      

Teramo come Las Vegas? Non esageriamo. C’è chi ha osato l’inosabile accostamento commentando una delle foto pubblicate su Facebook nel gruppo “Teramo fotografie”, una cartolina illustrata a colori della collezione di Pietro Serrani, con la didascalia sovrimpressa che dice: “Teramo - Corso San Giorgio (notturno)”. Eccola la “movida” teramana di qualche decennio fa. La fotografia risale agli anni ’50 del secolo scorso. Me la sono vista e rivista, l’ho ingrandita al computer e ne ho considerato e analizzato ogni centimetro quadrato, poi ho riconsiderato l’insieme. I ricordi sono affluiti, con la immancabile nostalgia, per la mia storia personale (eravamo giovani, io e tanti amici che sono invecchiati o non ci sono più) e per quella della città. Eccola la Teramo notturna, la Teramo by-night. Eccolo il cuore pulsante della città, il Corso San Giorgio. Avete notato quanta gente? Non sarà stata proprio notte fonda, ma è notte e il Corso è pieno di gente.

 

     Chi tra noi era esterofilo e aveva viaggiato lo chiamava “Calle mayor”, come in Spagna chiamavano le vie principali delle città. La gente sosta quasi tutta sui marciapiedi, perché, come mostrano con evidenza le scie luminose prodotte da una prolungata posa del fotografo, per il Corso ci passavano le automobili, in su e in giù. Non erano tante, ma ci passavano. Se passeggiare a piedi per il Corso, sui marciapiedi, serviva a incrociare le ragazze, passare per il Corso al volante dell’auto nuova appena acquistata era d’obbligo, anche per chi non era esibizionista.
   
Le luci. Le insegne illuminate a bandiera, all’ultimo grido. Teramo era un paesotto, ma era un capoluogo e sapeva esserlo. Sia sulla destra che sulla sinistra la scritta “Fermata” indica che per il Corso ci passavano anche gli autobus, e il logo, riconoscibilissimo per i più anziani, rimanda alla ditta a cui era demandato il servizio pubblico: l’INT (Istituto Nazionale Trasporti). Ma lungo il Corso ci passava anche la Romanelli, che partiva da Piazza Martiri, davanti all’Agenzia Ferrante, diretta a Roma. Per i viaggi più lunghi, turistici, c’era l’Italvie, di Torretta, la cui insegna faceva bella mostra di sé sulla destra, quasi in primo piano. I portici del Grande d’Italia, detto anche Caffè Fumo, erano sempre molto animati e sopra, due piani sopra, il Casino Teramano ospitava soci, viveur e accaniti giocatori di carte, alcuni in salette del tutto riservate, sulle quali si favoleggiava molto.
    
Le altre insegne luminose ci riportano alla memoria attività commerciali nel pieno vigore, in anni in cui maturava il boom economico che sarebbe esploso definitivamente negli anni ’60. “Confezioni Tessuti” dice la scritta dei Magazzini Abruzzesi, sia popolari che elitari, a seconda delle necessità, dove si comprava il cappotto buono quando si avevano soldi da spendere. La scritta “Everest”, di un negozio che vendeva le celebri e affidabili macchine da scrivere, più professionali delle popolari ed economiche Olivetti, non è illuminata, ma lo è quella che sta un po’ più su, sempre sulla destra: “Lane”. Dopo l’insegna, pure luminosa, dell’INA (Istituto Nazionale Assicurazioni) ce n’è un’altra che dice ancora “Lanerossi”, ma la N è spenta, un guasto in attesa di riparazione.
 
     Si succedono sullo stesso lato altre scritte, policrome, per dare visibilità a negozi e ad esercizi commerciali in piena attività, di ottima rendita per i titolari e di piena soddisfazione per i clienti. Le ultime scritte luminose arrivano fino a “capo del Corso”, dove la via principale di Teramo sboccava in Piazza Garibaldi, e qui anche la fontana era luminosa. Sul lato sinistro la prima insegna è quella del Banco di Napoli, l’istituto di credito più accreditato e serio dopo la Banca d’Italia. L’insegna luminosa è ad arco e sta a contrassegnare che l’intero palazzo appartiene alla banca. L’insegna della Farmacia Cerasani è tonda, ma non illuminata, non era ancora arrivato il tempo delle croci verdi luminose di luce alternata. Sotto i portici, nel piano rialzato di mezzo, c’era la redazione teramana de “Il Messaggero”, guidata da Nino D’Amico, nella quale proprio sul finire degli anni ’50, cominciai, proprio su una macchina da scrivere Everest, a battere i miei primi articoli, da affidare all’ultima Romanelli che sarebbe partita alle 23,30 e li avrebbe portati “fuorisacco” (come si diceva) a Roma, insieme con i pezzi dei colleghi, per essere pubblicati due giorni dopo.

    La scritta luminosa “Tabacchi” era quella della tabaccheria Camillini, dove a volte si poteva incontrare, nell’insolita veste di tabaccaio, il severissimo prof. Camillini, che faceva tremare di paura tutti i suoi alunni delle Scuole Medie “Zippilli”, che si trovavano nello stesso palazzo dove si trovava l’Istituto Magistrale, in via Carducci. Anche sul lato sinistro le insegne luminose si susseguivano una dietro l’altra, gareggiando in splendore e in colori, quella di un bar, quelle di altre attività commerciali, di quando i commercianti non temevano di fallire da un giorno all’altro, ma pensavano ad ingrandirsi e a progredire con i proventi delle vendite, sempre crescenti. I lampioni lungo il Corso, così ravvicinati e così splendenti, erano quelli che davano più luce, anche più delle insegne luminose, e ci si vedeva a giorno. Per divertirsi c’erano due sale cinematografiche lungo il Corso, l’Apollo e il Cine Teatro Comunale, ma c’erano altre tre alternative, le sale parrocchiali di San Berardo, del Carmine, di Sant’Antonio.
      Teramo che non c’è più, Teramo perduta, Teramo avvolta nella nebbia dei ricordi, Teramo quasi come Las Vegas, una piccola Broadway… no… Era anche quella una Teramo piccola, piccola, piccola…. così… una Teramo alla Fred Buscaglione, in cui si tirava a far tardi cercando di spendere il meno possibile, ma in cui i giovani avevano le tasche piene di sogni… Il sogno ricorrente era quello di andare via, di andare a studiare a Roma, a Bologna, a Firenze… Ma era un Teramo piena di luci… ora sono rimaste solo le ombre. E i sogni? Li abbiamo smarriti, perché nei nostri vestiti lisi le tasche, da tempo, erano bucate, anche se non ce ne eravamo accorti.