Il corrosivo del 26 settembre 2014  

 

Anonimato e pseudonimato

 

      Kierkegaard dichiarò, ne “Il mio punto di vista”, pubblicato volutamente postumo, di intendere come ‘il mio lettore’ il singolo, e non la massa, la folla anonima, il pubblico. È, quello di Kierkegaard, come dice Remo Cantoni, "un parlare di sé e per sé, perché costantemente attinge al fondo della propria unica e inconfondibile singolarità eccezionale". Devo dire che anche io, quando scrivo, non penso mai di rivolgermi ad un vasto numero di lettori, e nemmeno ad uno ristretto (i 25 lettori ai quali si rivolgeva Manzoni), ma ad “un singolo”, “uno”, con il quale mi rapporto idealmente. Non immagino mai che a leggermi sia una massa o una folla. Memore di quanto dice il Socrate platonico dell’Apologia, rivolto ai giudici: “Chi mi ha condannato non siete stati voi, ma la folla anonima, contro la quale è difficile battersi, perché non si può combattere contro delle ombre”.

 

     Ecco, gli anonimi che in rete, su Facebook, sui blog, intervengono, postano e commentano gli scritti altrui, e questo vale anche chi cerca di far dimenticare il proprio anonimato usando pseudonimi, sono delle ombre, vanno e vengono nel buio della notte senza una identità, senza un volto, senza nemmeno una dimensione. Non esistono e credono di esistere; tentano di far capire che esistono, ma non esistono e dietro l’anonimato nascondono la propria pavidità, la propria mancanza di spessore, il proprio vuoto esistenziale, la propria nullità. 

    Gli scritti anonimi sono sempre manifestazione di viltà, sia quando si rivolgono alla giustizia per denunciare crimini e delitti, sia quando hanno come fine la calunnia e la diffamazione, reati per i quali gli autori sconosciuti, che intendono nascondere la propria identità, sfuggono di fatto ad ogni assunzione di responsabilità. Internet ha santificato l’uso dell’anonimato mediante la possibilità dell’uso di “nickname” e la diffusione delle comunicazioni via web ha spinto governi e multinazionali a sviluppare metodi di sorveglianza senza precedenti. 

    C’è stato chi ha scritto che “Anonimo” è l’autore al quale vengono assegnate più schede librarie nelle biblioteche di tutto il mondo. Il filosofo danese Søren Kierkegaard ha scritto e pubblicato i suoi libri ciascuno con un diverso pseudonimo per una precisa scelta filosofica (in linea con quanto dicevo all’inizio riguardo al lettore al quale si rivolgeva come “singolo”, ma essendo anche lui, come autore, “un singolo”). Ma questa è letteratura. Nella realtà, nella vita sociale e politica, gli anonimi e gli pseudonimi sono assai meno nobili. “La causa della stupidità democratica è la fiducia nel cittadino anonimo; e la causa dei suoi crimini è la fiducia che il cittadino anonimo ha in se stesso” scriveva Nicolás Gómez Dávila (“In margine a un testo implicito”). Assai più duro era Arthur Schopenhauer in “Parerga e paralipomeni” (1851), scrivendo che l’anonimato era furfanteria letteraria, contro cui si doveva gridare: "Se tu, furfante, non vuoi professarti autore di quel che dici contro altre persone, tieni chiuso il becco di calunniatore”.

    L’anonimo crede di avere sempre ragione, ma ha sempre torto. Legge, ma le sue non sono letture; scrive, ma le sue non sono scritture, perché le parole che scrive non sono parole e le frasi non sono frasi; sono conati, non emissioni di suono; sono grafemi, senza dignità del verbo pronunciato; ideogrammi senza significato. Si crede potente, l’anonimo, e non è nemmeno prepotente, anche se si potrebbe prenderlo per tale, perché impone agli altri il proprio anonimato. Dietro la sua immaginazione di potenza o di pre-potenza, c’è la confessione della sua debolezza; il suo pseudonimo è la foglia di fico che copre la sua vergogna. Disserta, argomenta, fa l’occhiolino, avanza ipotesi e sospetti, fa riferimenti alla vita reale, ma la sua vita irreale è una dimensione alla quale non riesce a sfuggire, così come non riesce a dare concretezza a ciò che scrive. L’anonimo non è mai un “singolo”, perché non ha identità, ed è sempre confuso nella folla. L’anonimo è sempre folla, perché non è mai individuo; è sempre ombra, ma ombra di nulla, non è l’ombra di una cosa, di un oggetto, di una persona, ma l’ombra di se stesso. E’ l’ombra di un’ombra.

    Chi ricorre all’anonimato e si nasconde dietro un anonimo o uno pseudonimo è una persona di scarso equilibrio psico-affettivo, privo di autostima, che non ha compiuto quel percorso di individuazione di cui parla Jung, che non ha ancora trovato la propria strada e per timore di fallire evita di cercarla, per la paura di farsi carico della propria responsabilità.

     Anche io, nelle diverse stagioni della vita, ho utilizzato degli pseudonimi, ma con intento differente da quello di voler nascondere la mia identità. L’uso che ne ho fatto aveva un fine diverso dal “nascondimento”: la sottolineatura della singolarità, proprio come faceva Kierkegaard quando faceva comparire sul frontespizio dei suoi libri uno pseudonimo sempre diverso: Virgilius Haufniensis, Johannes de Silentio, Costantin Costantius, Hilarius, Johannes Climacus, Anticlimaticus, Victor Eremita. I miei sono stati Osle Initnepres, Simon Soel, l’intellettuale, Sor Paolo, ed erano più che un velame una sottolineatura, per la loro assoluta riconoscibilità e per la chiara riferibilità alla mia identità.
     L’utilizzo era anche un gioco, in stile ironico e satirico, ma con un significato più ampio, non estraneo ad un’ottica ispirata alla metafora, come mondo che non si svela completamente, ma rimane nell’orizzonte della finzione con immagini e termini più o meno riferibili al reale. Nella convinzione che il mondo è una maschera della vera realtà del singolo e che, se si indossa quella di uno pseudonimo facilmente riconoscibile, si vuole esprimere una certa irriverenza nei confronti dell’involuzione demagogica e conformistica della cultura e della politica del proprio tempo.
  
Ma la maggior parte di chi si nasconde dietro l’anonimato e lo pseudonimato sulla rete e sui blog non ha intenti così letterari e nobili: vuole semplicemente perpetrare un inganno e nascondersi per dire quel che non ha il coraggio di dire a viso aperto.