Ecco,
gli anonimi che in rete, su Facebook,
sui blog, intervengono, postano e commentano gli
scritti altrui, e questo vale anche chi cerca di far
dimenticare il proprio anonimato usando pseudonimi,
sono delle ombre, vanno e vengono nel buio della
notte senza una identità, senza un volto, senza
nemmeno una dimensione. Non esistono e credono di
esistere; tentano di far capire che esistono, ma non
esistono e dietro l’anonimato nascondono la propria
pavidità, la propria mancanza di spessore, il
proprio vuoto esistenziale, la propria nullità.
Gli scritti anonimi sono sempre manifestazione di
viltà, sia quando si rivolgono alla
giustizia per denunciare crimini e delitti, sia
quando hanno come fine la calunnia e la
diffamazione, reati per i quali gli autori
sconosciuti, che intendono nascondere la propria
identità, sfuggono di fatto ad ogni assunzione di
responsabilità. Internet ha santificato l’uso
dell’anonimato mediante la possibilità dell’uso di
“nickname” e la diffusione delle comunicazioni via
web ha spinto governi e multinazionali a sviluppare
metodi di sorveglianza senza precedenti.
C’è stato chi ha scritto che “Anonimo” è
l’autore al quale vengono assegnate più schede
librarie nelle biblioteche di tutto il mondo. Il
filosofo danese Søren Kierkegaard ha scritto e
pubblicato i suoi libri ciascuno con un diverso
pseudonimo per una precisa scelta filosofica (in
linea con quanto dicevo all’inizio riguardo al
lettore al quale si rivolgeva come “singolo”, ma
essendo anche lui, come autore, “un singolo”). Ma
questa è letteratura. Nella realtà, nella vita
sociale e politica, gli anonimi e gli pseudonimi
sono assai meno nobili. “La causa della stupidità
democratica è la fiducia nel cittadino anonimo; e la
causa dei suoi crimini è la fiducia che il cittadino
anonimo ha in se stesso” scriveva Nicolás Gómez
Dávila (“In margine a un testo implicito”). Assai
più duro era Arthur Schopenhauer in “Parerga e
paralipomeni” (1851), scrivendo che l’anonimato era
furfanteria letteraria, contro cui si doveva
gridare: "Se tu, furfante, non vuoi professarti
autore di quel che dici contro altre persone, tieni
chiuso il becco di calunniatore”.
L’anonimo crede di avere sempre ragione,
ma ha sempre torto. Legge, ma le sue non sono
letture; scrive, ma le sue non sono scritture,
perché le parole che scrive non sono parole e le
frasi non sono frasi; sono conati, non emissioni di
suono; sono grafemi, senza dignità del verbo
pronunciato; ideogrammi senza significato. Si crede
potente, l’anonimo, e non è nemmeno prepotente,
anche se si potrebbe prenderlo per tale, perché
impone agli altri il proprio anonimato. Dietro la
sua immaginazione di potenza o di pre-potenza, c’è
la confessione della sua debolezza; il suo
pseudonimo è la foglia di fico che copre la sua
vergogna. Disserta, argomenta, fa l’occhiolino,
avanza ipotesi e sospetti, fa riferimenti alla vita
reale, ma la sua vita irreale è una dimensione alla
quale non riesce a sfuggire, così come non riesce a
dare concretezza a ciò che scrive. L’anonimo non è
mai un “singolo”, perché non ha identità, ed è
sempre confuso nella folla. L’anonimo è sempre
folla, perché non è mai individuo; è sempre ombra,
ma ombra di nulla, non è l’ombra di una cosa, di un
oggetto, di una persona, ma l’ombra di se stesso. E’
l’ombra di un’ombra.
Chi ricorre all’anonimato e si nasconde dietro
un anonimo o uno pseudonimo è una
persona di scarso equilibrio psico-affettivo, privo
di autostima, che non ha compiuto quel percorso di
individuazione di cui parla Jung, che non ha ancora
trovato la propria strada e per timore di fallire
evita di cercarla, per la paura di farsi carico
della propria responsabilità.
Anche io, nelle diverse stagioni della vita,
ho utilizzato degli pseudonimi, ma con intento
differente da quello di voler nascondere la mia
identità. L’uso che ne ho fatto aveva un fine
diverso dal “nascondimento”: la sottolineatura della
singolarità, proprio come faceva Kierkegaard quando
faceva comparire sul frontespizio dei suoi libri uno
pseudonimo sempre diverso: Virgilius Haufniensis,
Johannes de Silentio, Costantin Costantius, Hilarius,
Johannes Climacus, Anticlimaticus, Victor Eremita. I
miei sono stati Osle Initnepres, Simon Soel,
l’intellettuale, Sor Paolo, ed erano più che un
velame una sottolineatura, per la loro assoluta
riconoscibilità e per la chiara riferibilità alla
mia identità.
L’utilizzo era
anche un gioco, in stile ironico e
satirico, ma con un significato più ampio, non
estraneo ad un’ottica ispirata alla metafora, come
mondo che non si svela completamente, ma rimane
nell’orizzonte della finzione con immagini e termini
più o meno riferibili al reale. Nella convinzione
che il mondo è una maschera della vera realtà del
singolo e che, se si indossa quella di uno
pseudonimo facilmente riconoscibile, si vuole
esprimere una certa irriverenza nei confronti
dell’involuzione demagogica e conformistica della
cultura e della politica del proprio tempo.
Ma la maggior parte di chi si nasconde dietro
l’anonimato e lo pseudonimato sulla rete
e sui blog non ha intenti così letterari e nobili:
vuole semplicemente perpetrare un inganno e
nascondersi per dire quel che non ha il coraggio di
dire a viso aperto.
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