“Veni, vidi, vici” diceva e
scriveva Cesare,
annunciando la sua, di vittoria. Brucchi nella sua
notte di delirio postelettorale festeggiò e annunciò
la sua con un pugno chiuso, quello della mano
destra, e con una bottiglia di spumante nell’altra,
la sinistra. Muzio Scevola, per decretare e punire
la sua sconfitta, mise invece sulla fiamma la mano
destra e se la bruciò. Vittorie e sconfitte,
vincitori e vinti. In democrazia vince la forza del
numero, la maggioranza, e perde la minoranza. Il
successo è dato dal numero dei suffragi e dei
consensi. Ogni evento si dice che sia riuscito o no
in base al numero dei partecipanti.
La recente serata teramana chiamata
Aperistreet viene festeggiata da molti come un
grande successo per l’eccezionale numero di chi vi è
accorso. Inutilmente altri si affannano a dire che
la qualità dell’evento non è stata eccelsa. Conta la
quantità, non la quantità e il quanto vince sempre
sul quale. Anche sul piano editoriale conta il
numero delle copie vendute, soprattutto oggi. Poco
conta che i libri che hanno fanno la storia della
letteratura siano stati stampati la prima volta in
un numero ridottissimo di esemplari (“Fleurs du mal”
di Charles Baudelaire stampò soltanto mille copie e
non furono vendute tutte).
Chi vince ha sempre ragione, anche se
ha torto. Hegel ha affermato che, quando gli Stati
confliggono tra loro e non riescono a trovare una
composizione sulla base del diritto internazionale,
si affrontano in una guerra e la guerra è il
tribunale della storia. Esso decide chi ha ragione e
chi ha torto. Chi vince la guerra ha ragione e chi
la perde ha torto. E’ come per le elezioni: chi le
vince ha ragione e chi le perde ha torto. E’ come
per le serate in piazza: non conta quello che si fa:
se partecipa molta gente è un successo, se partecipa
uno sparuto numero di persone è un insuccesso. Vuoi
mettere, però, a quanta gente piace passare ore in
piazza a sorseggiare birra e a mangiare porchetta e
a quanti piace assistere ad una performance poetica,
sia pure di un premio Nobel?
Chi vince ha anche diritto di scrivere
la storia degli avvenimenti e questo vale sia per
quelli storici che per quelli elettorali. I
vincitori scrivono i libri di storia e i vinti sono
costretti a leggerli, a imparare e ripetere quello
che c’è scritto. I vincitori hanno anche il diritto
(o se lo arrogano) di processare i vinti. Gli
americani processarono i tedeschi a Norimberga,
perché avevano vinto. Se avessero vinto i tedeschi e
i giapponesi, sarebbero stati gli americani ad
essere processati, magari a Washington o a
Hiroshima. I vincitori impongono anche le loro
costituzioni e i vinti sono costretti a giurare
fedeltà, lealtà e obbedienza alle norme che quelle
costituzioni impongono. Le maggioranze impongono i
loro regolamenti e le loro decisioni; le minoranze
sono chiamate a rispettare sia i primi che le
seconde e a subire le conseguenze di un dissenso o
di una obiezione di coscienza.
Il vincitore è sempre tracotante. Una
volta aveva il diritto di fare propri schiavi i
vinti. Oggi questo diritto si è trasformato e ha
assunto nuove forme, non sempre riconoscibili, ma è
rimasto. Il vincitore è arrogante e non sempre
riconosce al vinto gli onori delle armi. Non sempre,
come avviene nelle partite di calcio, magnifica le
grandi virtù del vinto per esaltare ancora di più,
nel confronto, le proprie. Anche Achille non
disprezzava Ettore, anzi lo apprezzava tantissimo e
invitava ad apprezzarlo, affinché chiunque potesse
apprezzare ancora di più il suo valore, che doveva
essere stato grande, se gli aveva consentito di
battere Ettore. In politica il vincitore quasi
sempre denigra il vinto e arriva, a volte, a dargli
del “buffone”.
In democrazia la maggioranza irride
la minoranza e la deprime oltre che reprimerla; la
squalifica, senza rendersi conto di squalificare in
quel modo anche se stesso. Nei commenti sull’Aperistreet
(del valore dell’evento non parlo, non essendo stato
presente) i pareri sono stati diversi e non solo
perché espressi da uomini della maggioranza e da
uomini della minoranza. Se anche questa è storia e
se anche di questo si scriverà sui libri di storia,
faticheremo a capire la realtà
socio-culturale-politica degli scrittori. Ma una
cosa sarà certa: se il numero è matematica e la
matematica non è opinione, e se è l’opinione dei più
quella che conta e l’opinione dei meno quella che
conta meno, i teramani potranno continuare ad
accorrere in piazza con il bicchiere in una mano e
con un panino con la porchetta nell’altra.
Peccato che non ne
abbiano un’altra, una terza, con la
quale fare il gesto delle due dita alzate a formare
una “V”, la prima lettera della parola “Vittoria”.
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