Il corrosivo del 2 ottobre 2012   

 

Dove casca l'asino

 

In uno dei miei “epici” scontri con l’allora allenatore del Teramo Calcio Giorgio Rumignani (uno degli ultimi prima che egli lasciasse definitivamente Teramo), il biondo friulano mi disse, con fare arguto: “Ho capito una cosa. Non mi scontrerò mai più con un giornalista che non vive facendo il giornalista”. Intendeva dire (a modo suo era un po’ filosofo) che la lotta era impari con chi faceva il giornalista (in quel caso sportivo) senza campare di giornalismo ed era perciò al di sopra di qualsiasi condizionamento derivante dalla necessità di dover dipendere dalla sua professione di giornalista.

   L’obiettiva situazione di “campare d’altro” mette in effetti il giornalista nella condizione di libertà assoluta nell’esprimere le proprie opinioni e nel poter resistere a qualsiasi pressione. E, in fondo, un po’ per questo che ho sempre considerato “un limite” l’essere giornalisti professionisti e ho sempre respinto ogni invito ad iscrivermi, pur potendolo fare, nell’albo dei giornalisti, sia pure pubblicisti. Max Weber ha scritto un’opera intitolata “Il lavoro intellettuale come professione”.

   Ne potrei scrivere una io, intitolandola “Il giornalismo come professione”. L’argomento centrale sarebbe costituito dalla serie di condizionamenti che gravano su chi, vivendo solo ed esclusivamente della professione di giornalista, condizionamenti che vanno da quello dei lettori (che si devono in qualche modo gratificare) a quello degli editori (che in un modo o nell’altro  indicano gli obiettivi e i mezzi per perseguirli, quando non anche i risultati extra-editoriali da conseguire), a quello… degli inserzionisti pubblicitari. Quest’ultimo è il più pesante, perché (è questo che ci ripetevano i nonni e i maestri pedanti quando ci impartivano le loro lezioni) “è qui che casca l’asino”.

 

     Anche la più bella impresa editoriale in campo giornalistico intreccia le sue vicende con quelle degli inserzionisti, i quali, come ebbe a dirmi uno di quelli che finanziavano, sia pure parzialmente, una delle prime trasmissioni di Tv Teramo via cavo, “sono loro ad ungere le ruote”. Se si dipende, e si campa, di inserzioni pubblicitarie, è impossibile non dipendere da coloro che le pagano, comprando spazi. E’ altrettanto difficile scrivere contro di loro (ma anche solo “su” di loro) quando e se se lo meritano, è altrettanto difficile riuscire a tenere ben netta la distinzione tra articolo giornalistico e redazionale a pagamento (più o meno indiretto). La scrittura libera e quella prezzolata costituiscono un’alternativa escludente e non si può al tempo stesso celebrare Dio e Mammona. Uno fa tanto per scrivere bei pezzi, per esprimere le proprie libere opinioni, per raccontare la realtà come la vede, poi arriva l’inserzionista pubblicitario, compra una o più pagine del giornale, uno spazio televisivo o radiofonico e… qui casca l’asino. Addio libertà d’espressione, addio libertà di opinione… si varca il Rubicone del “libero pensiero” e si entra nel Far West del “servo encomio e del codardo oltraggio”. L’indipendenza del giornalista va a farsi benedire e si fa maledire la scrittura su dettatura.

   Ho sempre sognato per il giornalismo (e per ogni altro tipo di scrittura) non il ruolo dei menestrelli medievali che se ne andavano di corte in corte costretti a cantare quel che volevano gli altri (il castellano, le sue dame, insomma il “mercato” e chiunque lo sfamava durante il suo peregrinare), ma il ruolo di chi, avendo una sua professione, scrive per vocazione e per diletto potendosi permettere la libertà dell’opinione, della stroncatura e perfino del dileggio, essendo padrone del proprio destino. E’ vero che la carta costa, l’inchiostro pure, e costano anche gli spazi su cui scrivere (a meno che non ci si accontenti di scrivere sui muri), che questi sono strumenti che qualcuno deve metterti a disposizione e non lo fa se tu, in qualche modo, non sei gradito. Ed è anche vero che non basta, soprattutto nella società di oggi, praticare un giornalismo parlato, non scritto, orale, perché è assai limitato e limitante. Ma è altrettanto vero che non si può far “cascare l’asino” ogni volta che si scrive su un mezzo di informazione e nemmeno una volta ogni tanto, perché l’asino basta che caschi una volta e quella volta vale per sempre.

   Oggi si può gridare, o mormorare, o strillare, o suggerire, sui blog, uno strumento ultramoderno a disposizione anche dei giornalisti non di professione, ma l’asino può cascare anche lì, perché anche lì, sia pure ridotti, i costi ci sono e il POV (Point Of View = punto di vista) dell’inserzionista pubblicitario (quello che unge le ruote) è in agguato. L’asino va tenuto bene in piedi, sempre. Bisognerebbe evitare di farlo cadere, anche una sola volta.