Quelli che mettono la propria penna al
servizio di qualcuno e non riescono a mettere al
riparo dal servilismo la propria mente non sono
giornalisti. Tu chiamali, se vuoi, giornalisti, ma
io no. Non lo faccio.
Non considero giornalisti i tanti
che ho incrociato e che nei loro articoli,
rinunciando alla propria indipendenza di giudizio,
esprimevano quello degli altri, ai quali erano
devoti o di cui erano fedeli (che non vuol dire
leali) esecutori di ordini. Non considero
giornalisti quanti usano la propria penna come una
spada e la impugnano per difendere i propri padroni
e offenderne i nemici; quanti si vendono al miglior
offerente e quindi si pongono al servizio ora di
questo ora di quello; quanti rivolgono stando in
ginocchio timide domande a coloro che temono e
sottopongono a serrati interrogatori coloro dai
quali non hanno nulla da temere. Non considero
giornalisti quei direttori che ho sorpreso ad
origliare dietro le porte mentre erano in corso
riunioni di redazione in cui si parlava anche di
loro; quelli che ho visto imporre ad aspiranti
giovani cronisti servili comportamenti ed ossequiose
riverenze in cambio della realizzazione del sogno di
veder comparire il proprio nome in calce ad un
articolo; quelli che cestinano i pezzi dei propri
collaboratori o ne stravolgono il senso perché non
possono consentirsi la pubblicazione sul giornale da
loro diretto di cose spiacevoli a chi dà loro il
pane e il companatico.
Non considero giornalisti
quelli che ingannano i propri lettori spacciando per
informazione la comunicazione di proclami o la
difesa di interessi di parte; quelli che si
nascondono dietro il paravento di una presunta
obiettività e non rendono palese il proprio punto di
vista, accettando il confronto con tutti, anche con
i propri lettori. Non considero giornalisti quei
direttori che fanno la cresta ai già poveri
emolumenti dei propri collaboratori né quei
collaboratori che per ambizione arrivano al punto di
andare a casa dei loro direttori e si prestano
perfino a fare i lavapiatti. Non considero
giornalisti quanti non riconoscono che a volte (anzi
assai spesso), alcune colleghe sono superiori a loro
né quelle oche che spesso starnazzano accanto ai
capi, ancheggiando, pensando di poter far emergere
solo in questo modo le loro qualità.
Tu chiamali, se vuoi, giornalisti, quei cialtroni che
sparano a piena pagina i loro titoloni
scandalistici, che sbattono mostri in prima pagina,
che spendono e spandono la loro superficialità e la
loro incapacità ad approfondire una notizia o
rinunciano a spiegarla e perfino a capirla; quelli
che fanno della loro incompetenza un merito di cui
si vantano, pur tentando di nasconderla; quelli che
si ostinano a scrivere e a parlare senza prima aver
appreso ad imparare e senza conoscere la lingua in
cui scrivono; quelli che si ostinano a considerarsi
giornalisti da più di cinquant’anni senza esserlo
stati per davvero neppure un solo giorno; quelli che
non sanno raccontare una città e la sua popolazione,
non sanno rappresentarne i sogni e le aspirazioni,
ma anche le delusioni e le frustrazioni. Io non
considero giornalisti i succubi del potere, quanti
rinunciano per principio a fare le pulci a coloro
che lo detengono, quanti non ambiscono ad altro che
ad un incarico o a un riconoscimento dei potenti,
comportandosi come fanno a sera i cani, dopo una
giornata di caccia, quando non aspettano altro che
una carezza del padrone.
Non considero giornalisti
quelli che, mentre ero impegnato nella difesa
dell’indipendenza di una testata di cui ero
responsabile editoriale, mettevano a disposizione
dell’editore con cui ero in difficili trattative la
propria illimitata flessibilità, garantendo di
essere capaci di piegarsi ad ogni suo ordine come
mai io avevo fatto e millantando una capacità di
gestione non posseduta. Non considero giornalisti
quanti tentavano di segare le gambe delle sedie
sulle quali ero seduto, tramando nell’ombra per
prendere il mio posto. Non considero giornalisti
quanti ai potenti che protestavano per il contenuto
o la forma di qualche mio pezzo di giovane cronista,
rispondevano servilmente che sarei stato punito o
redarguito, pur assicurando a me, presente, con
larghi sorrisi, che non lo avrebbero fatto.
Tu chiamali, se vuoi giornalisti, quanti mistificano la
realtà, diffondono interessate falsità, si imboscano
negli anfratti degli uffici stampa istituzionali,
diventando megafoni, scrivono il contrario di quello
che pensano e pensano il contrario di quello che
scrivono, non dicono quello che pensano e non
pensano quello che dicono, scrivono sulle gazzette e
concionano sugli schermi televisivi officiando messe
di ringraziamento ai propri benefattori o compiendo
riti propiziatori per essere beneficiati, quanti
snocciolano i loro rosari per esibire crediti
ingiustificati e ingiustificabili, quanti usano come
clave i collaudati “metodi Boffo” contro coloro che
hanno avuto l’ordine di danneggiare con la calunnia
e la diffamazione (reati che non saranno loro mai
contestati grazie alle collusioni e alle complicità
di cui godono) Non chiamo giornalisti quanti
traggono maggiori benefici dal non pubblicare una
notizia che dal pubblicarla; quanti, dovendo
pubblicare una notizia spiacevole a qualcuno, la
pubblicano insieme con la smentita dell’interessato
e spesso pubblicano prima la smentita che la
notizia, arrivando a volte a pubblicare la smentita
senza pubblicare la notizia. Non chiamo giornalisti
quanti considerano la notizia come un’arma di
ricatto né quelli che la considerano come incenso e
mirra da dispensare in cambio di oro.
Tu chiamali, se vuoi,
giornalisti. Io no. |