Il corrosivo del 10 luglio 2012   

 

Tu chiamali, se vuoi, editori

     

     Tu chiamali, se vuoi… editori. Ma non lo sono. Alcuni di loro sanno di non esserlo, altri no. Pensano di esserlo, ma non lo sono. Non possono esserlo. Non ne hanno la vocazione, ne hanno solo l’ambizione. Vorrebbero esserlo e pensano che il volere coincida con l’essere, perché sono abituati, ciascuno nel loro campo di impresa, a vedersi riconosciuto dalla realtà un ruolo al quale hanno ambito e che hanno perseguito, spesso con merito. Ma per essere editori non basta essere imprenditori. Occorre qualcos’altro, che essi non hanno. Nell’editoria non basta uno schiocco di dita, non esiste la bacchetta magica che trasforma in oro tutto ciò che luccica (o anche quello che non luccica), non basta essere Re Mida. Così, quando i conti non tornano – e nell’editoria non sempre i conti tornano, anzi, quasi mai – vanno nel pallone e tirano i remi in barca, mentre invece bisognerebbe mulinarli con maggior vigore. Investire nell’editoria non è come investire in un qualsiasi altro ramo di impresa e nemmeno affidarsi alla sorte, come si fa nel calcio o nella sponsorizzazione sportiva, o nobilitarsi, come si fa nella sponsorizzazione di eventi culturali.

 

     No, nel mitico, dannato, disperato mondo dell’editoria, quando si investe lo si fa, o lo si dovrebbe fare, con un altro spirito imprenditoriale, che pochi hanno tra quanti hanno avuto successo come imprenditori. Editori non ci si improvvisa. L’incompetenza nel ramo non è un vantaggio né un elemento positivo, perché si teme sempre che coloro ai quali si affidano dei giornali o delle testate radiofoniche o televisive, lo facciano per proprio tornaconto o per proprio interesse. Si vedono ombre dove non ci sono e luci dove non ci sono. Gli editori incompetenti (per la maggior parte impuri, nel senso che non sono solo editori, ma provengono dal comparto dell’imprenditorialità comune) sono come eterni Otello che sospettano sempre che i loro Jago attentino alla virtù della loro Desdemona (la loro testata giornalistica, che finiscono per strozzare per pura gelosia). Gli editori competenti (quasi tutti puri, nel senso che sono soltanto imprenditori editoriali) si comportano come padri padroni, dettano regole e metodi e mandano in Siberia (una Siberia culturale) quelli che non ne sottoscrivono un’esplicita accettazione e soprattutto una rigorosa applicazione. Ma sono migliori i secondi che i primi. Con loro, che sono competenti, si ragiona, a volte si discute, non poche volte si litiga, ma conservando la propria dignità, sia dicendo sì che dicendo no. Con i primi, incompetenti, non si ragiona ed è difficile conservare la propria dignità. Troppe volte per conservarla è necessario dire di no e non la si conserva dicendo sempre sì, anzi Signorsì.
     I secondi sono editori, i primi no. Tu chiamali, se vuoi, se proprio vuoi, editori, ma non lo sono. Non lo saranno mai. Dei secondi ne abbiamo visto pochi a Teramo, sia nel campo dell’editoria giornalistica (stampata o televisiva) che in quella libraria o multimediale. Dei primi son piene le fosse, perché molti di loro sono caduti, stanno cadendo o stanno per cadere in quelle scavate da essi stessi con i badili delle proprie aspirazioni mancate, rodendo all’osso gli investimenti, trattando i giornalisti loro dipendenti alla stregua dei propri operai, quasi addetti ad una catena di montaggio. Dopo aver edificato le proprie fortune sulla rigidità del cemento, molti di loro pretendono dai loro giornalisti la flessibilità dei giunchi al passare dei venti e chiedono che essi si pieghino o si rialzino a seconda di quello dei venti che spira più forte, solitamente la fredda tramontana del detentore più vecchio del potere o l’impetuoso scirocco di chi si appresta a conquistarlo con giovanile baldanza. Ai loro giornalisti spiegano il valore del denaro dicendo che esso più vale quanto meno se ne guadagna; parlano romanticamente dei bei tempi felici in cui faticavano a mettere insieme il pranzo con la cena per convincerli ad accettare bassi emolumenti; raccontano di quando sono emigrati da qualche parte con la valigia di cartone attaccata con lo spago per spiegare che si può andare lontano e diventare ricchi basandosi sulla propria forza di volontà e sulla determinata ostinazione nel perseguire gli obiettivi. Poi, però, pretendono anche di spiegare come si dirige un giornale, come lo si fa, come si scrive un articolo, come si conduce una trasmissione televisiva e lo fanno faticando a mettere insieme il soggetto con i complementi, l’indicativo con il congiuntivo e il singolare con il plurale.
     Tu chiamali, se vuoi, editori. Ma non lo sono. Non pretendere che essi sappiano di non esserlo. Avendo fatto fortuna e avendo accumulato ricchezze, disprezzano dentro di sé quanti non sono riusciti a fare altrettanto e sono convinti che ogni cosa abbia un prezzo, anche la dignità e la libertà. Son pronti a comperarle, ma pagandole il meno possibile, perciò di solito per i loro acquisti in questo campo si rivolgono a coloro che di dignità e di libertà ne hanno di meno. Entrambe hanno sul mercato caratteristiche differenti da quelle delle altri merci, ordinarie, che più uno ne ha e più è disposto ad abbassarne il prezzo, seguendo la regola aurea del rapporto tra domanda e offerta. La dignità e la libertà sfuggono a questa regola e più uno ne ha meno è disposto a venderle, meno uno ne ha più è disposto a metterle sul mercato, anche a basso prezzo, anzi bassissimo.
     Di editori o di presunti o sedicenti editori ne ho conosciuti, non dico tanti, ma un buon numero. Dei primi conto il numero sulle dita di una sola mano, ma potendo comodamente tenerne almeno tre, se non quattro ripiegate nel palmo. Questo per essere buono, perché in realtà, a ben pensarci, potrei anche tenere del tutto il pugno chiuso, rinunciando alla conta. Dei secondi ho bisogno di un piccolo pallottoliere (una calcolatrice, magari elettronica, sarebbe troppo) per poterli contare. Ma io non li chiamo editori. Chiamali, tu, editori, se vuoi. Se proprio vuoi. Ma non lo sono.