No, nel mitico, dannato, disperato
mondo dell’editoria, quando si investe lo si fa, o
lo si dovrebbe fare, con un altro spirito
imprenditoriale, che pochi hanno tra quanti hanno
avuto successo come imprenditori. Editori non ci si
improvvisa. L’incompetenza nel ramo non è un
vantaggio né un elemento positivo, perché si teme
sempre che coloro ai quali si affidano dei giornali
o delle testate radiofoniche o televisive, lo
facciano per proprio tornaconto o per proprio
interesse. Si vedono ombre dove non ci sono e luci
dove non ci sono. Gli editori incompetenti (per la
maggior parte impuri, nel senso che non sono solo
editori, ma provengono dal comparto
dell’imprenditorialità comune) sono come eterni
Otello che sospettano sempre che i loro Jago
attentino alla virtù della loro Desdemona (la loro
testata giornalistica, che finiscono per strozzare
per pura gelosia). Gli editori competenti (quasi
tutti puri, nel senso che sono soltanto imprenditori
editoriali) si comportano come padri padroni,
dettano regole e metodi e mandano in Siberia (una
Siberia culturale) quelli che non ne sottoscrivono
un’esplicita accettazione e soprattutto una rigorosa
applicazione. Ma sono migliori i secondi che i
primi. Con loro, che sono competenti, si ragiona, a
volte si discute, non poche volte si litiga, ma
conservando la propria dignità, sia dicendo sì che
dicendo no. Con i primi, incompetenti, non si
ragiona ed è difficile conservare la propria
dignità. Troppe volte per conservarla è necessario
dire di no e non la si conserva dicendo sempre sì,
anzi Signorsì.
I secondi sono editori, i primi no. Tu chiamali, se
vuoi, se proprio vuoi, editori, ma non lo sono. Non
lo saranno mai. Dei secondi ne abbiamo visto pochi a
Teramo, sia nel campo dell’editoria giornalistica
(stampata o televisiva) che in quella libraria o
multimediale. Dei primi son piene le fosse, perché
molti di loro sono caduti, stanno cadendo o stanno
per cadere in quelle scavate da essi stessi con i
badili delle proprie aspirazioni mancate, rodendo
all’osso gli investimenti, trattando i giornalisti
loro dipendenti alla stregua dei propri operai,
quasi addetti ad una catena di montaggio. Dopo aver
edificato le proprie fortune sulla rigidità del
cemento, molti di loro pretendono dai loro
giornalisti la flessibilità dei giunchi al passare
dei venti e chiedono che essi si pieghino o si
rialzino a seconda di quello dei venti che spira più
forte, solitamente la fredda tramontana del
detentore più vecchio del potere o l’impetuoso
scirocco di chi si appresta a conquistarlo con
giovanile baldanza. Ai loro giornalisti spiegano il
valore del denaro dicendo che esso più vale quanto
meno se ne guadagna; parlano romanticamente dei bei
tempi felici in cui faticavano a mettere insieme il
pranzo con la cena per convincerli ad accettare
bassi emolumenti; raccontano di quando sono emigrati
da qualche parte con la valigia di cartone attaccata
con lo spago per spiegare che si può andare lontano
e diventare ricchi basandosi sulla propria forza di
volontà e sulla determinata ostinazione nel
perseguire gli obiettivi. Poi, però, pretendono
anche di spiegare come si dirige un giornale, come
lo si fa, come si scrive un articolo, come si
conduce una trasmissione televisiva e lo fanno
faticando a mettere insieme il soggetto con i
complementi, l’indicativo con il congiuntivo e il
singolare con il plurale.
Tu chiamali, se vuoi, editori. Ma non lo sono. Non
pretendere che essi sappiano di non esserlo. Avendo
fatto fortuna e avendo accumulato ricchezze,
disprezzano dentro di sé quanti non sono riusciti a
fare altrettanto e sono convinti che ogni cosa abbia
un prezzo, anche la dignità e la libertà. Son pronti
a comperarle, ma pagandole il meno possibile, perciò
di solito per i loro acquisti in questo campo si
rivolgono a coloro che di dignità e di libertà ne
hanno di meno. Entrambe hanno sul mercato
caratteristiche differenti da quelle delle altri
merci, ordinarie, che più uno ne ha e più è disposto
ad abbassarne il prezzo, seguendo la regola aurea
del rapporto tra domanda e offerta. La dignità e la
libertà sfuggono a questa regola e più uno ne ha
meno è disposto a venderle, meno uno ne ha più è
disposto a metterle sul mercato, anche a basso
prezzo, anzi bassissimo.
Di editori o di presunti o sedicenti editori ne ho
conosciuti, non dico tanti, ma un buon numero. Dei
primi conto il numero sulle dita di una sola mano,
ma potendo comodamente tenerne almeno tre, se non
quattro ripiegate nel palmo. Questo per essere
buono, perché in realtà, a ben pensarci, potrei
anche tenere del tutto il pugno chiuso, rinunciando
alla conta. Dei secondi ho bisogno di un piccolo
pallottoliere (una calcolatrice, magari elettronica,
sarebbe troppo) per poterli contare. Ma io non li
chiamo editori. Chiamali, tu, editori, se vuoi. Se
proprio vuoi. Ma non lo sono.
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