Su quale terreno possiamo radicare
una nuova grammatica morale, una nuova sintassi
politica, per evitare altri inganni, dei perenni
ladroni di ogni tempo e di ogni latitudine, sempre
pronti a depredarci all’angolo della strada? Abbiamo
un bisogno vitale di univocità terminologiche e di
panorami lessicali in cui le parole esprimano
concetti chiari e non utilizzabili per fini diversi
da quelli per i quali è opportuno che esse vengano
usate.
La mancanza di un idioma comune ci
è stato troppo a lungo di impedimento;
l’introduzione di un quarto termine nel discorso
(ahi, la “quaternio terminorum” di Aristotele!) ha
reso sofistici tutti i nostri sillogismi e ha
degradato tutti i nostri ragionamenti. Parole a cui
avevamo affidato il compito di esprimere i nostri
valori più importanti, quali onestà, virtù,
giustizia, indipendenza di giudizio e di pensiero,
sono state costrette a significare il contrario di
quei valori. Le abbiamo prostituite e corrotte, le
abbiamo alla fine svuotate di ogni significato. Il
parlare è il grande effetto della razionalità e chi
non discorre non conversa. Il motto: “Parla,
acciocché io ti conosca” lo abbiamo trasformato nel
motto: “Parla, acciocché tu mi confonda”. Quella
attività a cui si dedica la nostra anima quando essa
comunica nobilmente, producendo immagini concettuali
di sé nella mente di chi ci ascolta, in cui consiste
il conversare, si è trasformata in una attività meno
nobile: trasmettere parole per veicolare inganni,
illusioni e tradimenti. Abbiamo stravolto il
significato delle parole, trasformandole in un suono
indistinto e indistinguibile, che ha finito per
renderci sordi, come accade a chi, rinchiuso in una
caverna sotterranea, finisca per perdere l’udito a
causa del fragoroso rumore prodotto dall’infrangersi
delle onde del mare contro una vicina scogliera.
Ritroviamo la nitidezza delle parole e l’univocità dei
significati e dei significanti. Analizziamo il
nostro linguaggio a mano a mano che ne ritroviamo il
corretto uso e abbattiamo per sempre questa Torre di
Babele che avevamo edificato. Poi, dapprima
brancolando tra le rovine ma in seguito tirandocene
fuori, proviamo a innalzare un nuovo tempio, dal
quale dovremo stare più attenti a tenere lontani i
mercanti. Abbiamo bisogno di nuovi reggitori, che
anche nella nostra polis siano illuminati quanto
onesti, desiderosi del bene comune piuttosto che di
quello privato, proprio e dei propri complici. Che
si dica pane al pane e vino al vino, dicevano i
vecchi libri, che suggerivano saggezze di
comportamento che abbiamo trascurato di mettere in
pratica.
Dobbiamo rigenerare non solo i nostri vocabolari, ma
anche le nostre pandette e, soprattutto, le nostre
coscienze. Del tanto che abbiamo perduto, poco
ritroveremo; avremo bisogno di nuovi punti di
riferimento, di nuovi ideali che prendano il posto
di quelli che si sono infranti come fragili specchi
contro i quali abbiamo visto scagliare pesanti sassi
da parte dei nostri nemici comuni, rivelatisi tali
dopo aver sacrilegamente finto di essere nostri
amici.
Non abbiamo bisogno però di nuove regole, sarà
sufficiente ripristinare quelle di cui da troppo
tempo stavamo trascurando il rispetto. Sarà
bastevole pretendere che tutti le rispettino e
nessuno le disattenda, che nessuno usufruisca di
benefici di casta o di esenzioni di ogni tipo, che
nessuno si veda accordare privilegi esclusivi e che
a nessuno sia concesso un facile perdono successivo
a comportamenti ingiusti e socialmente riprovevoli.
Sarà sufficiente che a tutti coloro che vengono meno
agli obblighi derivanti dalla legge e dalla morale
pubblica venga comminata la sanzione sociale dovuta,
che nella nostra comunità non vi sia più chi
lastrichi continuamente le strade con menzogne,
bugie, imbrogli, finzioni, trame, e trappole, e che
non consista in questo e solo in questo il “fare
politica”.
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