Ogni mattina
facevo un lungo giro, percorrendo quasi un
chilometro a piedi, per fare la mia quotidiana
provvista di giornali presso un’edicola più lontana,
dove una signora che mi sembrò più gentile accolse
certamente con soddisfazione un nuovo cliente che
spendeva giornalmente molto più della media dei suoi
abituali frequentatori. Le consegnavo il denaro dei
miei acquisti con un gusto particolare, perché
assaporavo il piacere di pensare che tutto quello
che davo a lei lo sottraevo ai possibili incassi
(con relativi guadagni) del primo giornalaio,
scortese, che mi sembrava perciò giustamente
penalizzato dalla mia decisione. La cosa andò avanti
per tutta l’estate e, nel mese di agosto, ogni
giorno.
Facevo un lungo giro a piedi per comperare i
giornali e poi andare in spiaggia, dove, sotto il
mio ombrellone, leggevo i miei giornali, pensando
ogni tanto con soddisfazione allo scortese
giornalaio che la mia decisione, magari a sua
insaputa, aveva tanto giustamente penalizzato.
Potete immaginare facilmente quale fu la mia
profonda costernazione nel sapere che i miei
sacrifici quotidiani erano del tutto inutili e la
mia soddisfazione mal risposta. Venni infatti a
sapere, ahimè tardivamente, che la giornalaia altri
non era che la moglie del primo. Avevo punito me
stesso e non il giornalaio, che aveva incassato il
mio denaro per interposta persona. Averlo consegnato
a sua moglie invece che a lui era stata esattamente
la stessa cosa. Per lui non era cambiato nulla. La
cosa era cambiata solo per me.
Ho sempre considerato questa storia come una mia
personale parabola laica, il cui insegnamento può
estendersi anche ad altri e, soprattutto, ad altre
situazioni. Quante volte, davanti ad una
alternativa, dopo aver fatto una scelta, ci siamo
accorti che, facendo l’altra, apparentemente
diversa, addirittura opposta, in realtà non avremmo
cambiato il senso delle cose? In politica è quasi
sempre così. Non poche volte votiamo la destra, ma è
come se avessimo votato la sinistra e viceversa;
votiamo un candidato ed è come se avessimo votato
quello che si presentava a lui contrapposto ed
alternativo. Scegliamo un sindacato ed è come se
avessimo scelto quell’altro, apparentemente di
orientamento diverso. Il fatto è che l’alternanza in
politica continua ad essere un miraggio,
l’omologazione e l’indifferenziazione sembrano
definitive e i linguaggi sono omologhi anche quando
appaiono diversi. Andiamo al concreto: credete che
aver votato Brucchi invece di Albi (o viceversa) sia
stato scegliere tra due candidati alternativi?
E credete che aver scelto nel recente
congresso del PDL Tancredi invece di Gatti (o
viceversa) sia stato altrettanto conseguente ad una
reale alternativa? Il bianco e il nero non si
contrappongono in una tavolozza in cui impera il
grigio; se non scelgo tra un ricco e un povero, ma
tra due ricchi o tra due poveri, in realtà non
scelgo. E, anche se il nostro amico Severino (posso
chiamare così amichevolmente Kierkegaard?) ci ha
insegnato che anche il non scegliere è una scelta,
non accade forse oggi che anche tra lo scegliere e
il non scegliere non c’è una reale alternativa? I
romani, per indicare una contrapposizione, dicevano:
aut aut; per indicare una disgiunzione, dicevano:
vel vel. Nella prima, uno dei due termini
contrapposti esclude l’altro e “tertium non datur”
(il “tertium” è il “né carne né pesce”, in politica
il compromesso, più o meno storico, la mediazione ad
ogni costo, il cerchiobottismo, l’inciucio). Nella
seconda, uno dei due termini non esclude l’altro,
perché non sono necessariamente in contrapposizione
tra di loro. Nell'uso comune della lingua italiana,
almeno una volta, l'espressione "aut aut" era
utilizzata per definire una scelta biunivoca
direzionata ("o di qua o di là") e, in generale per
alludere all'obbligo di esprimere una scelta imposta
a chi esitava a prendere una posizione.
Oggi quest’uso comune si va perdendo.
Siamo nell’epoca del “piuttostismo”, in cui il
termine "piuttosto che" viene utilizzato anche da
persone colte e coltissime come non si dovrebbe,
vale a dire con il senso di "oppure", alla “vel vel”.
Non esprime più una preferenza tra due termini
contrapposti, ma una indifferenziata indicazione
disgiuntiva. In politica accade lo stesso. Votare la
destra “piuttosto che” la sinistra non significa
preferire la prima alla seconda, ma vuol dire che
votare la destra o la sinistra è esattamente la
stessa cosa. Così come votare Tancredi “piuttosto
che” Gatti. E’ esattamente la stessa cosa. E
l’elenco potrebbe continuare: E’ esattamente la
stessa cosa votare Alfano “piuttosto che” Bersani, o
uno dei due “piuttosto che” Monti, o iscriversi ad
un partito “piuttosto che” ad una loggia massonica,
o aprire un conto corrente in una banca “piuttosto
che” in un’altra o fare benzina in un distributore
“piuttosto che” in un altro, o rogare un atto da un
notaio “piuttosto che” un altro, o andare da un
avvocato “piuttosto che” un altro, o comprare un
giornale “piuttosto che” un altro o guardare una
televisione “piuttosto che” un’altra.
Siamo nella repubblica del “piuttosto
che”, del “vel vel”. E’ rimasta solo per i poveri la
scelta “aut aut”, quella di fronte alle tasse e alla
difficoltà del sopravvivere quotidiano: o mangiare
questa minestra o (aut aut, non vel vel, non
“piuttosto che”) saltare questa finestra. Purtroppo
le cronache continuano a dirci che cresce il numero
di quelli che la saltano. |