Il corrosivo del 27 marzo 2012   

 

Cortigiani vil razza dannata

 

     Lasciate che intinga la mia penna non nella boccetta dell’inchiostro, ma in quella dell’arsenico, perché le mie parole possano risultare il più corrosive possibili, almeno quanto le intenzioni, nel tratteggiare la figura di una categoria di individui che ho sempre incontrato in grande quantità e il cui numero sembra crescere in maniera esponenziale. Parlo di quelle persone che sembrano dedicare la propria vita ad un mestiere, oserei dire quasi un’arte, che consiste nell’offrire i propri servigi al potente di turno, per ottenerne in cambio favori e protezioni. Il meretricio mentale e intellettuale arriva a toccare in costoro livelli infimi, da taverne della suburra, risultando il loro grado di servilismo inattingibile da persone comuni, dotate di un pur minimo coefficiente di dirittura morale e di amor proprio, ed essendo la loro capacità di genuflessione così spettacolare da far invidia ai contorsionisti dei circhi più rinomati. “Cortigiani, vil razza dannata!”, così Rigoletto nella sua celebre invettiva, a cui la musica di Verdi dà il giusto pathos, grida disperato all’indirizzo dei servi dei servi del potere, che vivono nell’ombra e di ombre usufruiscono nel loro brancolare alla ricerca di una remunerazione da fidi, ma a volte anche infidi, scudieri. Quando ne incontro qualcuno, di questi servitori in livrea, (soprattutto a Teramo, dove più li conosco, quasi uno per uno), mi sento rivoltare lo stomaco, perché il loro comportamento è oggettivamente ributtante. Sono pronti ad esaudire qualsiasi richiesta del capo e dei servi del capo, sempre pronti a chiedere un vantaggio, un beneficio, per sé e per i propri familiari, un incarico, una consulenza ben remunerata. Sono pronti a dire e a scrivere qualunque cosa se il capo lo vuole, omaggiano ad ogni pie’ sospinto il benefattore e, se qualcuno osa dire anche una sola parola che suoni negativa per i loro padroni, starnazzano come le oche del Campidoglio, ponendosi a gara nel mettersi in evidenza come difensori d’ufficio.

 

     In quasi tutti gli uffici pubblici della città questi “assunti” nella gloria del Signore, chiamati a ricoprire un ruolo stando seduti su una sedia - dalla quale però si alzano spessissimo per fare i propri comodi qua e là “fuori stanza” - sono legioni. Alcuni di loro sono assurti al rango nobile della dirigenza, dietro scrivanie importanti o primariati ospedalieri, e ne menano vanto, ma, inutili orpelli e privi di dignità, più gonfiano il petto e più fanno la ruota pavoneggiandosi, più rivelano la loro piccolezza d’animo, da capitan Fracassa con le spade di legno. Frequentano i camerini dei teatri dove si recita a soggetto nelle commedie di quint’ordine in cui gli Arlecchini sono sempre servi di due padroni e i Pulcinella campano con il miraggio di un piatto di maccheroni. Che si tratti di tessere di partito o di biglietti di auguri da distribuire equamente nelle grandi occasioni, poco conta, perché la tecnica è sempre la stessa: sentirsi servi e comportarsi come tali.

     Velenose vipere cornute, sono pronti a sparlare di chiunque anche solo accenni una critica a chi li foraggia o promette loro di continuare a vivere di elemosine, ricche, ma sempre elemosine. Volano senza sosta, come effimere portate dal vento, procurandosi le loro comodità e trasmettendo l’arte del procacciarsene ai propri figli, ai quali insegnano come si possa camminare senza piedi, far carriera senza meriti, cantare alla gloria dei benefattori e arpionare con becchi d’avorio quanto è possibile arraffare mettendosi a gara con gli altri, diventando all’improvviso grifoni e tirando fuori gli artigli dopo essersi mostrati innocui come uccellini del paradiso. Sono l’immagine viva della loro stolta avidità. Nel servire, compiono prodigi clamorosi, cavano dai loro matracci finte lacrime di coccodrillo con le quali muovere a pietà coloro ai quali chiedono favori, dalle loro laide borse estraggono sospiri profondi quanto il mare quando è profondo per commiserare da sé le loro miserie e indurre gli altri a fare altrettanto e concedere loro quello che chiedono.

     Da altri piccoli contenitori di velluto traggono fuori, all’occorrenza, le loro risatine di scherno da rivolgere a quanti non sanno mostrarsi servili come loro e perciò non sono altrettanto bravi a ottenere ciò a cui aspirano, magari meritandolo di più. Quale veleno è paragonabile a quel loro dire e non dire, a quel loro borbottare elogi in cambio di prebende, a quel loro cicaleccio di complimenti, che costituiscono i grani di un rosario blasfemo, perché viene usato per recitare preghiere che sono concatenazioni di spudorate richieste? E’ una frottola ingegnosa quella che si racconta quando si prova ad enumerare i loro meriti, perché essi sono inesistenti e non è sulla loro base che hanno costruito le loro fortune e le loro carriere questi esseri immondi così bene armati di gentilismi, di perfidie, di astuzie e di altri mille generi di mostruosità. Eccoli, non li vedete? Salite le scale degli uffici pubblici, del Comune, della Provincia, della Regione, degli enti pubblici o semi pubblici, percorrete con passo felpato i corridoi e sbirciate nella stanze. Ne incontrerete a diecine, di sfaccendati, di raccomandati, di super protetti che fanno finta di essere utili alla società, quando invece lo sono solo a se stessi, di essere impegnati in un’attività, mentre invece costituiscono solo una passività per il bene comune, di essere al servizio di tutti, mentre lo sono soltanto al servizio di qualcuno e soprattutto di se stessi. Poi, se potete, visitate e frequentate le loro case e vi accorgerete che vivono in stalle dorate, nelle quali però il lezzo del letame è insostenibile, perché manca totalmente quel dolce effluvio che solo può rendere profumati gli ambienti: la dignità morale.

     Non accadrà mai - o soltanto di tanto in tanto, con cadenza secolare, all’alba delle grandi rivoluzioni -  ma lasciateci sognare che essi cadranno un giorno sotto un’infame mannaia nella mano di un boia, comandato da una mal combinata giustizia. Lasciateci sognare che tutti noi potremo avvicinarci in un lontano domani ad una madia da dove ben conservati pani di una intatta purezza d’animo emanino aromi e ben percepite fragranze.