Per la città, per Teramo, non è stato un autogoal
(il teatro lo si può fare altrove), ma un goal, per
il quale i teramani, come sugli spalti, possono
festeggiare. E’ un goal magnifico, esaltante.
Intanto per uno scampato pericolo: l’abbattimento
del vecchio campo sportivo e l’edificazione
dell’area, anzi di due, nel nome di un criminoso
consumo del territorio, preferito al più
eco-compatibile principio architettonico del
costruire sul costruito, riqualificando il tessuto
urbano esistente. Appariva scioccante che Teramo
dovesse dare 44 per riavere 7, per di più affidato
alla gestione dei privati. Risultava scioccante che
si concedesse tanto alla speculazione. Ma è stato un
goal anche per un secondo scampato pericolo. Avremmo
affidato gran parte della nostra economia alla
criminalità organizzata, molto di più di quanto non
sia già avvenuto, benché molti si ostinino a
sostenere che questo non è ancora avvenuto.
La pietra tombale sul project-financing, che adesso
sappiamo con certezza essere stato ideato in odor di
camorra, cala su un sepolcro imbiancato di buoni
propositi con i quali si abbellivano e si
mascheravano cattive intenzioni. Poco cambia che ora
Brucchi e i brucchiani dicano che erano all’oscuro
di tutto, che non sapevano, che non si erano
accorti, che non potevano immaginare. Intanto perché
qualcun altro in città, forse più avveduto, aveva
dato avvertimenti, a volte precisi, avanzato
sospetti, non poche volte fondati, invitando i
sostenitori del progetto a maggiore prudenza e a più
profonda riflessione. Ma anche perché la sorpresa e
addirittura lo sbalordimento che Brucchi e i
brucchiani dicono di aver provato nel leggere, per
di più parzialmente, il documento della prefettura
vengono esibiti con iperboliche connotazioni, che
più vengono sottolineate più provano l’iniziale
insipienza. E questo nella più bonaria
interpretazione dei fatti, perché ci sarebbe qualche
spiraglio anche per interpretazioni ancora più
maliziose. Goal e autogoal, dunque.
E’ stato un autogoal per il sindaco che è un goal
per la città che lui amministra, a dimostrazione
dello “spread” (anche in questo contesto si può
usare questo termine), cioè della divaricazione,
della distanza, della separazione che c’è tra
Brucchi e i teramani. Di questi, ce ne sono molti
che lo osannano ad ogni piè sospinto e ad ogni suo
detto, ma si capisce assai bene che lo fanno perché
o sono beneficiati da lui e dalla sua parte o
sperano di esserlo in un futuro più o meno
immediato. E’ stato un goal per i teramani, quelli
che non hanno mai creduto in Brucchi o non ci
credono più, dei quali non pochi hanno cominciato,
da visionari (ma il termine è positivo, perché la
“visione” progettuale è dei grandi spiriti, anche se
un po’ folli, ma geniali), a immaginare di costruire
il nuovo teatro non solo proprio dove si trovava il
vecchio che fu abbattuto da scellerati, ma proprio
come era. Lasciamoli sognare, intanto, come i tifosi
di una squadra che ha appena fatto un goal sognano
che ne faccia subito un altro. Quanto a Brucchi,
adesso è così frastornato che da una parte sarebbe
capace di seguire il sogno di tutti e dall’altra non
ha la forza di avere un sogno suo, ma si appoggia a
quelli di Mauro Di Dalmazio, i cui sogni e le cui
visioni hanno già prodotto devastazioni alle quali
non sarà possibile riparare.
Con un sentimento di pietà, come quello che avemmo
quando fu costretto a rimangiarsi un decreto
anti-Biancone che in troppi continuano a dire che
avesse già firmato, ora che ha dovuto rimangiarsi
anche questo project-financing bollato con tanta
infamia, rivolgiamogli l’interrogativo di cui lo
scrittore tedesco Hans Fallada ha fatto il titolo di
uno dei suoi libri più belli: “E adesso,
pover’uomo?”. Anche perché sul piano politico gli
potrebbe capitare quel che viene evocato da un altro
splendido libro dello stesso Fallada, intitolato:
“Ognuno muore solo”.
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