Il corrosivo del 27 dicembre 2011   

 

Chiedere per ottenere

 

    Mi diverte molto leggere le “polemichette” che a volte, periodicamente, si accendono come zolfanelli tra giornalisti che si rimbeccano reciprocamente vecchie o nuove, vere o presunte, accuse riguardo il “far domande” ai politici, sul modo di farle, su come si debbano o non si debbano fare, su come si siano fatte in passato o su come le si continua a fare. Mi diverte molto perché, non essendo io giornalista, mi piace sentire (e leggere) cosa i giornalisti, iscritti all’ordine, dicono (e cosa scrivono) sulle regole deontologiche che sovrintendono (o che dovrebbero sovrintendere) sul difficile mestiere dell’intervistare. Mi diverte perché, lo confesso, mi sarebbe piaciuto ogni tanto intervistare qualcuno. Ma non mi è mai capitato. A me è toccato in sorte, quando svolgevo la professione del docente, un mestiere altrettanto difficile, che, chissà perché, viene definito con un altro termine: interrogare. E’ un termine che ha in sé qualcosa di inquietante, perché viene usato anche a proposito di un'altra tipologia del “far domande”, quella dei commissari di polizia. Costoro interrogano i sospettati per scoprire quello che sanno e per farglielo confessare.

 

     Nella maggior parte dei casi, invece, i professori interrogano gli studenti per scoprire quello che non sanno, anche se lo fanno per farglielo confessare ugualmente. I migliori tra loro interrogano, correttamente, gli studenti su ciò che sanno, per consentire loro di mostrare come sanno esporre quello che sanno e per accertarne il grado di “strutturalità”.

     Tra l’interrogare e l’intervistare una qualche differenza ci deve essere, se terminologicamente, le due attività vengono distinte. Entrambe consistono nel porre domande, ma, quando queste vengono poste ai politici, chissà perché, danno adito a quelle “polemichette” a cui accennavo all’inizio e vengono evocate colorite espressioni, quali “interviste in ginocchio” (o peggio, attingendo ad alcuni capitoli dell’ars amatoria).  Quel che diverte (anche me) è che i giornalisti spesso si accusano reciprocamente di sostituire le domande con quelle pratiche compiacenti e disonorevoli; che alcuni attempati cronisti salgano in cattedra per accusare i colleghi più giovani di essere servizievoli nei confronti del potere dopo esserlo stati per una vita; che costoro, a loro volta, rispondano per le rime, ma senza voler affondare la lama fino all’elsa nel petto dei capponi che si pavoneggiano.

Poiché anche io a volte mi sono esibito, anche in questa rubrica, nell’esplicitare il frutto di alcune mie riflessioni riguardo l’arte del porre domande ai potenti, mi sento in dovere di ribadire che valgono alcune regole generali, tutte collegate con il fine che si propone chi si dedica a quest’arte e che non ha senso soffermarsi a chiedere se una domanda (un quesito) rivolta ad un gestore del potere sia scomoda, se sia compiacente e servizievole, se assomigli alla battuta che la spalla porge al comico protagonista, se eviti accuratamente ogni spigolosità. Mi viene in mente la differenza principale che i romani ci hanno insegnato a proposito del “chiedere”, che è assai simile (anche se non del tutto identico) al “domandare”. La differenza è tra il “chiedere per sapere” e il “chiedere per ottenere”. Credo che, quando si chiede qualcosa ad un potente, questa differenza sia importante e che solo la coscienza di ciascuno (si sia o non si sia giornalisti non conta) può dare una risposta all’interrogativo: sto chiedendo per sapere (e magari riferire poi ad altri quello si è saputo) o sto chiedendo per ottenere?

     Dopo aver espresso il mio divertimento nell’assistere alle “polemichette” tra giornalisti che si scambiano accuse sul modo di intervistare una personalità politica, esprimo il mio personale senso di disgusto nell’accorgermi, quando me ne accorgo, che qualcuno che nella vita non ha fatto altro che chiedere per ottenere (anche conducendo un’intervista, trasformando gli esplicitati quesiti in implicite richieste), ottenendo quasi sempre ciò che veniva esplicitamente o implicitamente chiesto, accusa qualcun altro di fare la stessa identica cosa. Evidentemente, questo qualcuno o non si pone di fronte allo specchio per interrogare la propria coscienza, o non possiede uno specchio. O, mi balena una terza ipotesi… forse non possiede una coscienza.