Il corrosivo del 30 settembre 2011   

 

Epistola a Lino Befacchia per la sua liberazione   

            

Caro Lino,

 

     le gazzette mi riportano che ti sei dimesso da consigliere comunale, inviando una nobile lettera che è quasi un’invettiva, e che alcuni hanno per questo espresso il proprio rammarico. Comprenderai bene che io, invece, esprimo il mio compiacimento, sapendo prossimo il tuo ritorno tra noi, dai quali ti allontanasti dando le dimissioni da libero pensatore quando avesti la debolezza, o il coraggio, di accettare una candidatura a sindaco.

     Ora siamo qui, che ti aspettiamo, pronti a darti merito del tuo eroismo, o a rimproverarti per la tua debolezza, felici di poter ammazzare per te il vitello grasso. Soltanto tu puoi sapere se sei stato un eroe, immolato ad una sicura e consapevole sconfitta, o se sei stato un ingenuo, attratto dalle sirene di quel mondo che non ti ha mai accettato e alla fine ti ha respinto, o forse tu hai respinto.

     Io e te sappiamo che il compito che ti eri sobbarcato era assai difficile. Ne aveva parlato Platone nel suo celebre mito della caverna, quando diceva che coloro i quali erano riusciti a liberarsi dalla schiavitù della convinzione che le ombre proiettate sul fondo di un antro oscuro dalla luce del sole che avevano alle spalle costituissero il vero ed erano usciti all’esterno per contemplare la vera realtà, avevano il dovere di tornare, a turno, dentro la caverna, per tentare di convincere gli altri, rimasti nell’oscurità, della necessità di compiere un identico percorso verso la luce.

 

     Platone ci aveva avvertiti: quegli schiavi delle ombre non amano essere distolti dalla visione dei loro simulacri di verità e lasciarsi trarre a distaccarsene, e sono disposti a tutto per rimanere nelle loro false considerazioni e nelle loro menzognere convinzioni. Così hai sperimentato anche tu quanto essi siano ostili a chi cerca di guidarli verso la liberazione dalla loro schiavitù e proni a seguire il verbo di chi continua a sfruttare il loro convincimento che le ombre siano vere e che le verità siano ombre.

     Io e te sappiamo quanto noi si debba far festa per la tua liberazione dal carcere degli affari e della politica e quanto gli amici ne siano contenti, al punto di inneggiare alle nostre divinità, i valori etici e morali, che l’hanno favorita. Ti accoglieremo in patria come un esule che rivediamo dopo lungo tempo, uscito finalmente dal tuo “Spielberg”, dove tanto hai sofferto, senza nemmeno la consolazione di una rosa che consentì al povero Maroncelli di ringraziare il vecchio chirurgo che gli amputava un arto.  Anche tu hai avuto qualche Giuda nel tuo orto di Getsemani, ma tu sapevi quanto ne contasse, a frotte, il tuo Monte degli Ulivi e, pur avendone individuati molti, hai affrontato consapevole il loro tradimento, esponendo il tuo petto al pugnale dei tuoi Bruti.

     Purtroppo, quando ti vedemmo partire dalla nostra terra, una diecina di anni fa, sapevamo tutti che saresti naufragato e che la procella avrebbe condotto il tuo legno su territori ostili, tra popolazioni che ti avrebbero considerato nemico pur fingendo di trattarti da amico; sapevamo che tanta sarebbe stata la tua sventura che né il tuo linguaggio sarebbe stato compreso né le tue azioni apprezzate; sapevamo che, imprigionato nella terra degli schiavi, avresti avuto nostalgia della libertà di pensiero e di coloro che sono padroni di se stessi. Salutiamo nel tuo ritorno non una sconfitta, ma una vittoria; non una morte, ma una rinascita; non una tristezza, ma una gioia. Molti di noi, in attesa del tuo ritorno, hanno acceso dei falò sulla riva del mare, in modo che tu possa agevolmente riconoscere l’approdo anche di notte. La tua isola, la tua Itaca o, se preferisci chiamarla così, la tua Utopia, ti attende; e tutti ti accompagneremo fino alla tua capanna, dove potrai riunirti alla tua gente, padrone della tua vita e del tuo destino, felice di aver disdegnato palazzi dorati nei quali si può abitare solo da servi e da servi di servi.

     Che bello poterti riavere qui, con noi, “mentre il pavimento è pulito e pure sono le mani di tutti e i calici, mentre qualcuno ci mette intorno al capo ghirlande intrecciate e un altro ci porge in una coppa il profumo odoroso e c’è il cratere pieno di gioia ed altro vino è pronto, che promette di non mancar mai, dolce come miele nei vasi e odoroso di fiori. In mezzo a noi l’incenso esala il suo sacro profumo e c’è acqua fresca e dolce e pura; ci sono biondi pani e la tavola sontuosa si piega sotto il peso del formaggio e del denso miele. Nel mezzo l’altare è tutto ornato di fiori e il canto e il piacere della festa riempion la casa.”

     Che bello restarsene qui, insieme, distesi accanto al fuoco, ascoltando il vecchio rapsodo Senofane di Colofone che ci canta i suoi versi, bevendo vino di Tracia e sgranocchiando ceci…