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Non so a che cosa attribuire, o forse lo so fin troppo bene, questo grigiore, questo appannamento, questo piatto, a volte perfino sciatto, modo di proporsi, sempre uguale, ripetitivo, ripercorrendo all’infinito format consunti dall’uso, conducendo trasmissioni senza fantasia e senza inventiva, come travet piuttosto che uomini di comunicazione. Dove è finito, lo chiedo con tenerezza e perfino con amore, lo spirito del laboratorio televisivo, l’ansia di ricerca di nuovi modi di espressione che una volta mettevano in mostra tanto positivamente? Che cosa frena le potenzialità che una volta venivano così bene espresse? Il panorama è desolante. La nuova tecnologia consentirebbe funamboliche novità, la piattaforma digitale promette mirabilie, una pur minima creatività produrrebbe cose egregie ed interessanti, un adeguato spirito di iniziativa farebbe crescere di molto il prodotto finale. Invece si vede quel che sempre si è visto, si sente quel che sempre si è sentito, si ragiona come sempre si è ragionato, si intervista come sempre si è intervistato, si ha l’impressione che si continui a fare quello che si è imparato e come lo si è imparato, senza voler imparare niente di nuovo. Viene il sospetto che sia venuto meno l’amore verso il “far televisione”; che sia sopraggiunta una specie di stanchezza, di noia; che qualcosa trattenga tutti dal fare cose diverse in modo diverso, che ci sia, non dico una percezione di poca libertà di espressione e di comunicazione, ma una sorta di auto-limitazione, avvertita come un confine non formalmente contrassegnato ma lo stesso esistente come barriera da non oltrepassare. Non credo che si tratti di una forma di auto-censura, ma di una carenza di sicurezza, tipica di quando si deve accontentare ad ogni costo qualcuno che però non ci dice mai con chiarezza che cosa vuole e perciò non sappiamo mai cosa possa pensare di quel che facciamo, ma temiamo che possa giudicarlo in modo negativo e trarne le conseguenze. Un reticolato immaginario perimetra l’angusto territorio della televisione locale teramana facendone un campo di concentramento in cui tutti sono prigionieri, anche quelli che la televisione la fanno, non soltanto quelli che ci vanno ospiti. L’ho guardata per qualche giorno in maniera continuativa: ho avuto l’impressione di uno stanco rituale, una sorta di rosario collettivo, una continua giaculatoria in cui si susseguivano fasi e gesti sempre uguali. Me ne sono dispiaciuto. Conoscendo il particolare valore di qualcuno, nell’avvertire come fosse in qualche modo represso, in qualche momento ho provato rabbia, nel non veder fare e dire cose e nel sapere benissimo che c’era la capacità di farle e di dirle. Per questo, mi permetto di dire: animo, ragazzi. Svegliatevi! Datevi una mossa! Ritrovate l’entusiasmo di un tempo. Sperimentate, rinnovatevi, mostrate di saperci fare. Liberatevi delle scorie e delle mezze maniche. In fondo non c’è cosa più bella che “fare televisione”. Non dimenticatelo! E se c’è un padrone in redazione, ribellatevi! Detronizzatelo! Allons enfants de la… television! |