Il corrosivo del 6 settembre 2011      

    

    

      Due cose mi hanno stupito ogni volta che il mio cammino ha incrociato il mondo del giornalismo, anche quello teramano. La prima è l’irresistibile spinta che molti avvertono fin da giovanissimi verso il mestiere che consiste nello scrivere testi destinati alla pubblicazione sui periodici, dai quotidiani ai mensili, o all’utilizzo radiotelevisivo. Non esito a parlare di vocazione, che induce poi quei giovani per tutta la vita a illudersi di diventare giornalisti e a sopportare con eroismo precariato, angherie, frustrazioni, scarsa o nessuna retribuzione, pur di vedere il proprio nome stampato in calce ad un articolo. La seconda è la pervicace e assai spesso perversa ostinazione di alcuni imprenditori a farsi editori, di giornali  o di televisioni, e in questo caso non esito a parlare di velleità.

     Ho conosciuto molti sia nel primo che nel secondo campo e devo dire che in quest’ultimo mi sono imbattuto in una  sentina di vizi più o meno capitali: vanagloria, orgoglio, presunzione, tipici caratteri di chi, avendo conseguito successo in un particolare settore d’impresa, crede di avere meriti illimitati e la capacità di riuscire anche nel campo dell’editoria. Pochi di loro diventano editori veri e si comportano come tali, perché non hanno alcuna esperienza né la pazienza per conseguirla; sono soltanto proprietari di testate che si limitano a comprare, credendo di aver comprato anche i giornalisti che le fanno vivere.

 

     Non si rendono conto della specificità dell’editoria e si comportano come chi si mette un fiore all’occhiello, per farsi bello soprattutto nei confronti di qualche referente politico. Ma, pur rendendosi vagamente conto di avere a disposizione uno strumento di potere, quale è un organo di informazione, non hanno la sensibilità necessaria per maneggiarlo. Avrebbero bisogno di calzare un paio di scarpine di cristallo, come Cenerentola, per muoversi su un terreno così delicato e dagli equilibri instabili, e invece indossano scarponi chiodati, muovendosi come elefanti in una cristalleria. Passano subito all’incasso nell’esercizio del loro potere, pretendendo che un giornale o una televisione diano subito utili di produzione, come avviene nei loro opifici, dove i prodotti sono materiali. Non riescono a capire che ce ne sono anche di immateriali, come nel giornalismo.

     Menano vanto per essere proprietari di giornali e televisioni, ma non si occupano mai dei mezzi di produzione, settore nel quale esercitano il massimo della parsimonia, riottosi ad ogni spesa e ad ogni investimento. Trattano anche i giornalisti come mezzi di produzione, si divertono a fare i padroni in redazione e ogni spesa par loro superflua. I cosiddetti editori teramani, di giornali e di televisioni, non sono mai sfuggiti a queste considerazioni generali e, anzi, hanno sempre mostrato il possesso, in sommo grado, di  queste caratteristiche negative. Hanno sempre investito assai poco nelle testate che hanno comperato, le hanno lasciate languire o  illanguidire, che è la stessa cosa, facendole vivere, e non sempre sopravvivere, in uno stato perenne di anoressia, negandosi anche alle spese più urgenti e indifferibili, brillando per assoluta mancanza di lungimiranza, non riuscendo mai a mettere insieme uno straccio di progetto di lunga veduta. Il termine che trovo più adatto per qualificare questi presunti “editori” è: pidocchiosi. L’editoria teramana è stata sempre pidocchiosa, non riuscendo mai a fare salti di qualità. Le cose sono peggiorate con le testate on line e con i periodici free-press, perché è nata la grande illusione che si potesse continuare all’infinito a “fare le nozze con i funghi”, come diciamo dalle nostre parti, cioè contando sempre e solo sul volontariato e sulla precarietà degli operatori dell’informazione, molto spesso comportandosi assai disinvoltamente nei confronti di impaginatori e stampatori (costretti a fare il possibile e l’impossibile per il recupero dei loro crediti), e confermandosi sempre incapaci di riconoscere le necessarie professionalità.

     Non ha senso comprare una testata e poi non far nulla per farla vivere, o anche solo sopravvivere, o fare di tutto per tenerla sempre in un stato di ansietà e di precario equilibrio, lesinando ogni bene e perfino l’aria per respirare. Eppure l’editore teramano si è sempre comportato così e così continua a comportarsi. Non vedo all’orizzonte segni di mutamento. Parlare di inadeguatezza è poco. Un giornale non è una mucca da mungere, tanto meno se alla mucca non si dà niente da mangiare. Una televisione non è una fabbrica, la cui produttività si misuri con il numero di merendine che vengono prodotte ogni giorno. Una redazione non è un luogo dove il padrone arriva per dire che cosa si deve scrivere e che cosa non si può scrivere o per presentare la lista dei politici di cui si deve parlare solo bene e quella dei politici dei quali, ogni tanto, si può anche parlare male. Gli editori teramani non hanno mai capito, e non capiscono, che, pur avendo comprato giornali e televisioni, i veri padroni di quelle testate sono i lettori e i telespettatori, dei quali solo i direttori che le dirigono possono farsi interpreti, in una scrittura quotidiana che viene affidata alla professionalità e all’indipendenza dei giornalisti.