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continuare a spartirsi prebende come i ladri di Pisa. Si sono rinfacciati l’un altro accuse di demagogia e si sono detti che non si sopportano a vicenda, trascurando il fatto che siamo noi abruzzesi che non li sopportiamo più, sia gli uni che gli altri, e ne faremmo volentieri a meno. Quando si è padroni della città, come capita in agosto a chi resta preferendo la calma e la tranquillità al fragore e alla confusione delle spiagge, se ne apprezza ogni angolo più nascosto, rivisitando posti a cui non si faceva più caso da tempo e riassaporando emozioni ormai perdute nel tempo. Nulla e nessuno infrange la quiete e tutto favorisce la meditazione e la rievocazione. Eccola, questa città sonnolenta, la stessa che pensa di essere quella che non è, che sa di essere quella che è, che non vuole fare nulla per diventare diversa da quella che è, a cui piace tanto restare com’è. Eccola questa città che non ha saputo conservarsi qual era e non ha saputo ancora diventare quella che vorrebbe essere; quella che pensa di meritare un futuro migliore del passato e non sa che il suo presente vive nella colpa di avere cancellato il proprio passato. Volgi lo sguardo ai monti e pensi ai tanti che stanno al mare, pensi al mare e rivolgi lo sguardo ai monti che fanno corona a questa valle, nella quale la città pigramente stende le sue membra al sole. Guardi verso le colline che una volta erano colline ed ora sono palazzi edificati accanto e sopra ai palazzi e pensi ai tanti che questa città l’hanno dominata e a quelli che la dominano e la domineranno ancora, approfittando del poco sdegno che i teramani hanno nei confronti di quelli che la dominano e la posseggono, possedendo anche le loro anime. Questa città in cui d’agosto, specialmente il giorno di Ferragosto, non si sa che fare e dove andare, ti dà il senso e il valore del restare, riuscendo perfino a trasmetterti una sensazione di onnipotenza. Città senza turismo e senza turisti, città senza abitanti e senza residenti, città senza negozi ed esercizi pubblici aperti, città nella quale non mangi e non bevi se non hai una casa tua, dove mangiare e dove bere, e una tua cosa da fare e qualcuno a cui dirla, Teramo il giorno di Ferragosto non si popola nemmeno di sera e le ombre dei lampioni non incrociano il passo di nessun viandante. Don Abbondio, scrive Manzoni, non poteva darsi un coraggio che non aveva. Teramo non può darsi vocazioni che non ha e non può che rimanere quella che è, “neghittosa e pigra”, come appariva ai suoi figli nell’ottocento, “ospitale e generosa” verso gli stranieri come è sempre apparsa e appare, ma quando essi hanno ragioni per venirci e restarci, trovandone sempre di meno nel mese che nelle cosiddette ferie di agosto trova il suo baricentro metereopatico, ma anche quello epistemologico. Qui le trasformazioni si annunciano con anni di anticipo e si realizzano con decenni di ritardo, qui si pensa una cosa e se ne fa un’altra, qui governano i peggiori e i migliori si lasciano governare. Qui si scrive molto e si legge poco, si chiacchiera molto, soprattutto a vuoto, si vaga senza meta e si ama deliziare il palato. Si dà un calcio alla crisi, pensando che domani è un altro giorno, si pensa di essere diventati un modello di riferimento per gli altri abruzzesi, si capisce troppo poco che siamo ancora la Cenerentola delle favole, perché il principe azzurro ha pensato solo per sé e non ha voluto perdere tempo a cercare chi aveva perso la scarpetta, consegnando quella che ha trovato a qualcuno degli amici che ha portato con sé a palazzo, con tanto di grembiulino al seguito e con nella borsa di rappresentanza squadra, compasso e cazzuola. Così per edificare, anzi, per riedificare. Come se ci si possa ancora illudere di costruire qualcosa per la collettività e non solo per le proprie logge e per i propri clans. Teramo d’agosto dorme. E nessun bacio di nessun principe riuscirà a svegliarla. |