|
|||
Non avendo personalmente presenziato all’incontro, trovandomi in uno dei miei consueti periodi di esilio nel Lombardo-Veneto, non mi arrischio ad entrare nel merito. Mi baso sui resoconti giornalistici, di cui mi fiderò quel che basta per poter fissare la mia attenzione solo su un’espressione che Gianni Chiodi, stando alle cronache, ha usato, criticando i suoi critici, qualificando le loro accuse di essere nient’altro che “discorsi da bar”. Il Chiodi che ho conosciuto io, che ho apprezzato e della cui elezione a Presidente della Regione mi sono a suo tempo compiaciuto, pur non avendo contribuito ad essa con il mio voto, non avrebbe mai usato questa espressione. Capisco da dove possa essergli derivata questa arroganza da “luissino” (da laureato alla Luiss), che lo induce a considerare molti dei suoi interlocutori come persone di secondo piano e di poco credito. Ma non capisco come la sua parabola degenerativa, iniziata da quando si è ritrovato commensale dei potenti, lo induca a sentirsi così diverso dagli altri e di essere così diverso da come era. Il Chiodi che conoscevo io non avrebbe mai qualificato nessun discorso come “discorso da bar”, perché certamente avrebbe considerato che anche i discorsi che faceva Socrate, riferitici da Platone, altro non erano che “discorsi da bar”, per quel che allora, nell’Atene periclea, erano i bar o i locali affini, discorsi da palestra, da piazza, da foro, da strada, da lupanare (perché Socrate parlava di filosofia anche nei postriboli e con le etere). Tutti i discorsi del “Simposio” platonico sono discorsi da bar, di quelli che si fanno una sera a cena con gli amici, in una casa privata, in un ristorante o in un pubblico esercizio. Ne facevano anche Orazio e Mecenate, quando passeggiavano lungo la Via Sacra. Il Chiodi che conoscevo io avrebbe saputo ricordare che non è l’essere fatto in un bar che qualifica un discorso, ma chi lo fa. Se per “discorso da bar” intende un discorso che non si regge in piedi, che non ha capo né coda, che non è altro che un vaneggiare, gli assicuro che discorsi così ne ho sentiti fare più nei pubblici consigli, da esponenti politici e da governanti, che nei bar, anche quelli frequentati spesso da avvinazzati. “Discorsi da bar” è il titolo di un album del 2003 de La Famiglia Rossi, una band che propone sperimentazione musicale e che passa dallo ska, al folk e al rock. Forse il Chiodi che non riconosco più ha voluto ispirarsi a questo album più che ai discorsi socratici. Ma forse no, considerato che il secondo brano dell’album è intitolato “Mi sono fatto da solo” ed è dedicato a Silvio Berlusconi (il mentore del Chiodi che non conosco più) ritratto come un megalomane imbonitore che prefigura sin da piccolo il disegno di comprarsi il Paese, ne descrive i successivi passi, dagli esordi imprenditoriali come palazzinaro, ai rapporti con dell'Utri (e quindi con la mafia), all'iscrizione alla P2, ai conti in paesi poco trasparenti per finire alle leggi “ad personam” varate per coprire le attività illegali, dal controllo dell'informazione ai ritocchi estetici sulla sua persona per dissimulare il suo vero volto. (Traggo queste informazioni da “Wikipedia”). Sono certo che il Chiodi che parla di “discorsi da bar”, accusando i suoi oppositori di farne, non abbia tratto da questi elementi la sua ispirazione, anche perché lui (parlo di Chiodi) “tutto da solo” proprio non si è fatto, considerato che è stato “fatto” da altri, dai quali pretende solo a parole di considerarsi svincolato e svincolabile. Deve essere vero, perciò, ciò che mi sussurra maliziosamente il mio demone (anche io ho un mio demone, ce lo abbiamo tutti): che nell’usare quella espressione il Gianni Chiodi che non si riconosce più si sia lasciato andare lui ad un discorso da bar, anzi, ad una considerazione da bar. Di quelle considerazioni che non sono da bar perché si fanno in un bar, ma lo sono solo perché la loro natura (da considerazione da bar) dipende da chi le fa. E chi l’ha fatta, mi suggerisce il mio demone, nel farla, si è mostrato quale mai finora era parso ai miei occhi: un politico da bar, come tanti. D’altro canto, di questi politici la sua giunta è piena. Si può essere politici da bar anche senza frequentare i bar, le strade, le piazze, le palestre e i lupanari, ma solo le aule civiche e sedendo solo su scranni consiliari. Socrate resta Socrate anche in un bar, un politico da bar resta tale anche se diventa Governatore. |