Il corrosivo del 14 giugno 2011

 

      

     L’aver rimesso piede, dopo sedici anni, in un cabina elettorale, cosa che ho  fatto perfino provandoci gusto domenica pomeriggio, ha risvegliato in me lontani e sopiti ricordi. Mi sono tornati alla mente personaggi, situazioni, episodi di tante campagne elettorali e di tante elezioni di un  tempo antico e irripetibile. Ricordo un presentatore di liste che all’ultimo momento, nella cancelleria del tribunale, ingoiò il certificato elettorale di un candidato della sua stessa lista che risultava per lui scomodo, temendo di riportare un minor numero di preferenze, e ne determinò così l’esclusione. Ricordo alcuni candidati inseriti in lista a loro insaputa (il reato è prescritto) da presentatori di lista alquanto disinvolti. Ricordo comizi tenuti sotto il solleone o sotto una pioggia battente. Ricordo pomeriggi e serate in cui, visitando possibili elettori di campagna, occorreva per prima cosa superare l’esame della bevuta in comune del bicchiere di vino offerto con ripetuta insistenza, senza poter rifiutare, perché si sarebbe offeso, chi lo offriva, sì che, al termine di quella che si rivelava una “via crucis”, la testa non risultava proprio lucida.

     Ricordo soprattutto le promesse elettorali, che venivano chieste e che a me non piaceva fare, perché sapevo che non avrei potuto mantenere nemmeno una, trovandosi la mia lista schierata alla minoranza della minoranza della minoranza e per di più fuori del cosiddetto “arco costituzionale”. Ricordo le tante promesse fatte con grande “non chalance” e perfino con grande faccia tosta da chi sapeva di non poterle mantenere ma le faceva lo stesso. Ricordo le richieste di chi era disposto a vendere il proprio voto per un piatto di lenticchie o per poco meno.

 

     Ciò che mi è rimasto impresso negli anni è un dato rimasto a lungo non scalfito e, anzi, radicato nella consuetudine: la credulità di buona parte degli elettori. A questa credulità è dovuta gran parte degli avvenimenti politici che si sono susseguiti nell’ultimo decennio. Oggi mi chiedo: come è stato possibile, come è possibile, che ci sia chi continua a promettere mari e monti senza aver realizzato nulla e che ci sia ancora chi continua a dare la propria fiducia a chi lo fa? Quand’è che un elettore decide di svegliarsi dal suo sogno ad occhi aperti e realizza che gli sono state fatte delle promesse mai mantenute? Ho cercato di studiare, avvalendomi di buone ed opportune letture, il comportamento di quegli incantatori di serpenti che riescono per anni a farsi dare fiducia da un elettorato troppo credulone, ma non sono riuscito a trarre alcuna conclusione e nemmeno a formulare un’ipotesi credibile. Mi sono convinto che deve esserci un’arte, una predisposizione, una specie di istinto del buon venditore, che si esplica sia sul mercato dei beni e degli oggetti sia su quello dei voti. I buoni venditori, e ce ne sono alcuni di ottimi ed eccellenti, che riescono a vendere ombrelli anche il giorno di ferragosto e riuscirebbero a vendere frigoriferi perfino agli eschimesi (per ripetere una frase che a suo tempo fu celebre), quando agiscono sul piano politico ed elettorale, riescono a spacciare per vere le falsità più evidenti, a far credere reali le cose più irreali e a convincere di essere capaci di miracoli eccezionali, quasi quanto il trasformare l’acqua in vino, il moltiplicare pani e pesci, il camminare sulle acque.

     Ciò che però mi sorprende più di questa abilità, di cui mi sono sempre meravigliato, è la credulità, anzi, la “creduloneria” di alcuni elettori che abboccano all’amo più di pesci che non hanno visto un verme da mesi, che sono disposti a credere ciecamente a qualsiasi tipo di “mirabilia”, che sono capaci di concedere fiducia per anni e anni senza farsi venire il minimo dubbio sull’incapacità di coloro ai quali la concedono. Ricordo che il mio nonno materno, quando da bambino gli riferivo qualcosa che qualcuno mi aveva detto, mi chiedeva: “E tu ci credi?”.  Per me quella fu un’ottima scuola e imparai che, prima di credere, occorreva verificare. Quando poi andai all’università, seguii le lezioni di Ugo Spirito, il grande filosofo allievo di Giovanni Gentile, che aveva una posizione filosofica denominata “problematicismo”. Le sue lezioni consistevano nel farti esprimere un’opinione o una tesi, filosofica, religiosa o politica, per sottoporla poi a vaglio critico e problematico, insinuando dubbi e proponendo riflessioni. Anche quella fu un’ottima scuola. Anche quella era un continuo succedersi, in forme diverse, della domanda: “E tu ci credi?”.

     Credere è forse davvero un dono che fa un Dio, o è uno stato di grazia. Può essere che riuscire a credere sia una fortuna e che consenta di vivere sognando, sperando, progettando. So, però, che credere, credere senza comprovare, senza verificare, è delittuoso in molti campi: nella filosofia, nella scienza, nella medicina e… anche in politica. Perché si deve continuare a credere a un politico che promette senza mantenere, che dice di volerti aiutare quando invece è lui che vuole essere aiutato da te con il tuo voto e con il tuo appoggio, che dice di voler fare una cosa e ne fa un’altra, che dimostra ogni giorno di più di considerare il tuo voto come uno sgabello di cui si serve per la sua carriera politica?

     Votando, domenica pomeriggio, e mettendo la croce su quattro sì dei quattro referendum, ho espresso la mia opinione su quattro quesiti precisi, ma ho avvertito la netta sensazione che stavo anche rispondendo “No, non ci credo”, anzi, “No, non ti credo”, a chi, invitandomi a non andare a votare, cercava di indurre anche a me credergli, come è riuscito a fare per quasi un ventennio con milioni di italiani. Insomma, esprimendo quei quattro sì, esprimevo anche un no a chi avrebbe voluto indurmi a non esprimerli.