Il corrosivo del 31 maggio 2011

 

    

     Non prenderò posizione né a favore dell’uno né a favore dell’altro dei due schieramenti, perché non ne ho capito, sinceramente, le contrapposte ragioni. Pur spiegate attraverso comunicati e prese di posizione televisive, non mi sono risultate chiare. Anzi, mi sono parse ragioni così irragionevoli da temere che non siano state spiegate bene, perché così come sono state spiegate sono assai bizzarre e incomprensibili. Da una parte il Comune di Teramo, dall’altra i Comuni di montagna, da Montorio in su, si sono dichiarati una guerra che assomiglia molto a quella che si dichiararono Bologna e Modena ai tempi di Federico II e di Ezzelino III da Romano a causa del rapimento di una secchia (almeno nel racconto poetico di Alessandro Tassoni, che posticipò di qualche secolo il furto per ragioni letterarie).

     Qui non abbiamo una secchia rapita, a quanto pare, ma il rapimento, forse solo tentato, di un parco, quello del Gran Sasso Monti della Laga, se non proprio il rapimento di tutto il Parco, quello della sua porta. Montorio intenderebbe difen-

 

dere il suo possesso della porta, congiunto con quello della vetrina, contro il tentativo di Teramo di strapparglielo, su suggerimento, o quanto meno con la complicità di presunti ed autoreferenziali geni della comunicazione turistica assurti al rango di assessori regionali. 

     E’ una piccola guerra di cortile di gente che non vede al di là del proprio naso, condotta con strumenti bellici di assai poca efficacia e che risultano ridicoli come i fucili a turaccioli dei luna park e delle giostre.  Il primo effetto di questa stupida guerra è stato lo squallore di una piazza, quella principale di Teramo, nella quale si intendeva solennizzare il Parco, ma in effetti se ne denunciava il vuoto di funzione. Sono stati allestiti degli stands e dei gazebo che (salvo due, nei quali erano in mostra alcuni prodotti, scarsi di numero, di quantità e di rappresentatività), apparivano del tutti vuoti, senza che nulla vi si vedesse salvo i fondali fotografici, nemmeno del tutto efficaci e di buon gusto, con l’accentuazione di profili altimetrici e sky-line di stile sinceramente non apprezzabile.

     L’impressione generale che se ne ricavava era quella di un tentativo abortito di mettere in mostra elementi caratterizzanti del Parco, che però non si coglievano. Sembrava di trovarsi in una mostra fotografica di basso livello e la gente che si aggirava smarrita tra gli stands e i gazebo si chiedeva che cosa si volesse dimostrare. Qualcuno diceva che in quegli stands e sotto quelle tende avrebbero dovuto esserci i prodotti tipici e tradizionali dell’economia montana del Parco, ma che i Comuni della montagna, per gelosia, avevano impedito che ci fossero, facendo così fallire l’iniziativa teramana.

     Francamente non era un bel vedere e dominava l’idea dell’incompiuto e dell’inespresso. Quali fossero gli obiettivi degli organizzatori non l’ho capito, come non ho capito perché coloro che li hanno ostacolati si siano attivati per farli fallire. Tra l’altro il tutto non aveva alcuna forza evocativa, mancando ogni elemento di richiamo per eventuali turisti e visitatori di passaggio ed essendo tutto visibilmente ispirato ad un autocratico senso di sé. Mi sono chiesto: ma davvero c’è gente che litiga per un Parco e scende in guerra? Che cosa dimostra questa piccineria?      Ho ripensato a tutte le volte che Teramo ha cercato, ma lo ha fatto solo a parole, di rivendicare un ruolo di città capoluogo che nessuno dei comuni vicini gli riconosce più da tempo. Ho ripensato, soprattutto, al modo in cui la politica considera entità come comunità montane e parchi, di qualsiasi genere, così come altre istituzioni ed organizzazioni che pure potrebbero essere di per sé proficue. Per la politica un Parco, un museo, una Comunità montana è luogo elettivo dell’esercizio di un potere e questo fa sì che si mettano sempre in piedi dei carrozzoni il cui fine non è quello del bene comune, ma il bene privato di presidenti, direttori, consiglieri, portaborse vari, che vivono di ciò che viene fatto nascere, non certo spontaneamente, nel sottobosco delle organizzazioni di partito.

     Sono allibito di fronte a certi compensi e a certi riconoscimenti economici che sono tanto più alti quanto più sono basse le competenze specifiche di coloro ai quali vengono elargiti ed assicurati. Ogni iniziativa viene orientata al complesso e intrecciato gioco di questi poteri paralleli che si risolve in un continuo spreco di risorse pubbliche, anche ora che la situazione economica generale è così difficile e piena di problemi senza soluzione. Il Parco per la cui porta e per la cui vetrina si scende in guerra non è, lo vediamo tutti, un fine, ma un mezzo. E non è un mezzo per ravvivare un sistema economico messo in crisi dal trasferimento a valle di comunità che lasciano deserti i nostri borghi ormai privi di attività redditizie; non è un mezzo per ridare ossigeno a un sistema organico in crisi di elementi di sussistenza, ma un mezzo al quale certi politici di secondo rango si affidano per continuare una carriera appannata o per tentare di intraprenderne una con ambizioso rampantismo.

     Il presidente del Parco Gran Sasso Monti della Laga, Arturo Diaconale, pare che abbia dichiarato che occorre risvegliare il gigante che dorme perché contribuisca a rivitalizzare il territorio teramano. Io personalmente mi auguro che continui a dormire, così non è costretto a vedere quello che vediamo noi, che viviamo e ci muoviamo ai suoi piedi: un ceto politico che ancora oggi, per stupide questioni personali e di bottega, può dividersi per una secchia (pardon, un Parco) rapita.