Il corrosivo del 17 maggio 2011

 

     So in che cosa consiste la febbre elettorale. Ne conosco i sintomi e l’evoluzione. Non mi sfugge quanto cresca alla vigilia degli scrutini, quando partiti e candidati fremono nell’attesa di sapere i dati e le cifre relative alle liste e, quando ci sono, alle preferenze. Ho partecipato a troppe elezioni per non saperlo, anche se ne ho vinte poche e perse tantissime, quasi sempre ristretto nel ruolo di accettate candidature di servizio o di testimonianza. Immagino perciò quanto abbiano sofferto anche qui da noi coloro che hanno affidato alle ultime elezioni amministrative, nei comuni dove si è votato, i loro sogni e le loro speranze, le loro ambizioni e le loro aspirazioni.

     Capisco la trepida attesa del Pavone rosetano e della sua avversaria, il cui merito politico principale stava nell’essere la sorella di uno che conta. Capisco le trepidazioni dei vastesi, ancora alle prese con un vuoto istituzionale che li ha contraddistinti anche quando non ne ricorrevano le ragioni. Si può essere amministrati o disamministrati e vastesi e rosetani hanno condiviso le traversie dei comuni di mare, dove basta un tratto di penna per distribuire con gli strumenti urbanistici ricchezze e povertà, arricchimenti e impoverimenti, facendo finta, solo finta, di perseguire il bene comune, quello di tutti, e non solo di qualcuno.

     L’ansia di rinnovamento era grande negli oppositori, almeno quanto la ricerca di una riconferma di leadership per interposta persona a Roseto o diretta e personale nel caso di Vasto. Ma dietro, nell’ombra, c’erano altri interessi, più generali, e gli strateghi del centrodestra e del centrosinistra avranno passato anche loro una notte insonne, cercando di leggere la temperatura politica nel termometro elettorale ancora prima che questo potesse essere infilato sotto l’ascella di un’urna.

 

       “L’urna è puttana!” diceva sempre il prof. Angelo Lettieri, ricordando come le promesse e sperate messe di voti non arrivavano mai e i risultati erano sempre inferiori alle aspettative. Un altro mitico personaggio delle campagne elettorali di un tempo, di nome Furio, era convinto che prima o poi sarebbe arrivata l’elezione che avrebbe consentito alla sua parte, la destra, di avere tanti di quei voti che ci sarebbe stato bisogno di raccoglierli “’nghe la cistarèlle”. Furio non c’è più, ma se potessimo parlare con lui, come troveremmo il coraggio di dirgli che la sua parte adesso veramente raccoglie voti “’nghe la cistarelle”, ma per conto terzi, con un cesto non di proprietà, ma fornito da un padrone che considera come un mezzadro chi va in giro a raccogliere con il canestro voti che deve poi riportare a palazzo e mettere a disposizione di chi comanda?

      La destra-mezzadra anche in Abruzzo ha preso parte a questa campagna elettorale di una primavera piovosa sperando di poter tenere per sé qualche suffragio, dopo averne portati tanti all’ammasso della casa comune, e il governatore Chiodi si è speso in prima persona a fianco dei candidati del suo schieramento, sapendo di giocarsi parte della propria credibilità dopo qualche disavventura della sua giunta e qualche critica interna. Il fatto di trovarsi ai minimi storici della sua popolarità e in un contesto di mugugni lo ha fatto trovare in un tourbillon di situazioni non facili e in un clima elettorale che ha finito per dargli più di un momento di fibrillazione. Le forze che lo sostengono hanno bisogno di sentirsi gratificate ogni giorno e ad ogni competizione elettorale e il timore di qualche frana incombeva.

     I risultati elettorali così come hanno cominciato ad emergere alle prime rilevazioni lo hanno in parte tranquillizzato, avendo su di lui l’effetto di un bel pannicello ghiacciato sulla fronte che scottava e non poco. A parte qualche locale successo, nemmeno troppo a sorpresa, dei candidati sindaci del centrodestra, il caso rosetano (dove era fin troppo facile approfittare della crisi di rigetto del ginoblismo) e quello colonnellese (dove era troppo facile sperare di cantare vittoria su un ras augusteo di rango parlamentare che sperava di continuare a dominare il proprio comune grazie a perdute capacità ipnotizzanti), si è assistito in altri contesti ad una pur timida ripresa delle speranze del centrosinistra che non solo fa sperare gli anti-chiodiani ma fa temere ai chiodiani e ai filo-chiodiani che l’erosione del consenso possa accrescersi. Sul dato generalizzato, soprattutto sul piano nazionale, di un’avanzata di movimenti anti-sistema di ispirazione grillina e della conferma di una larga percentuale di renitenti al voto, si impone una riflessione amara su quanto non si voglia davvero far nulla sul piano della riduzione delle spese dell’apparato statale ed amministrativo. In alcuni comuni, anche abruzzesi, sono stati rinnovati consigli comunali e sindaci sulla base di un numero di votanti assai esiguo, in qualche caso di poco superiore al centinaio.

    L’unica vera riforma possibile e necessaria, quella dell’abolizione delle province e dell’accorpamento dei comuni con bassissimi numeri di residenti e di elettori, pur più volte annunciata, non viene avviata e continua lo sperpero. Ma il nostro ceto politico bada solo a perpetuare se stesso e il proprio sistema di potere. Così anche il governatore Chiodi deve avere assistito agli scrutini con un unico sentimento dominante, lo stesso che ispirava gli alunni del maestro D’Orta: “Io speriamo che me la cavo”. Ma i suoi solerti collaboratori stanno ancora misurando di momento in momento la sua febbre elettorale, tanto più che i ballottaggi potrebbero riservare brutte sorprese.