Il corrosivo del  22 febbraio 2011

    

         

     Nella mia vita mi è capitato di conoscere, e a volte di frequentare, dei miliardari. Non proprio dei Paperon de’ Paperoni sguazzanti nell’oro, ma quasi. Alcuni di loro non parevano tali e per capire che fossero miliardari occorreva necessariamente venirlo a sapere dagli altri, perché loro non avrebbero mai confessato di esserlo. Sono i miliardari in incognito, che tengono per lo più il loro denaro depositato in banca, senza investirlo, o sotto forma di un latifondo agricolo che tengono incolto, senza mai trasformarlo in moneta se non all’occorrenza, per qualche necessità di spesa quotidiana o annuale, a cui fanno fronte con grande parsimonia. Altri miliardari, tra quelli in cui mi sono imbattuto, non nascondevano il proprio stato di ricchi, né avrebbero potuto nasconderlo, anzi avevano a volte la necessità di farlo sapere e perfino di far credere che lo fossero, più di quanto non si sapesse in giro, tenendo fede a quel principio economico spicciolo secondo cui essere ricchi significa non possedere il denaro, ma  essere capaci di farsene prestare molto dalle banche sulla base del credito, a sua volta fondato sulla diceria di possedere molto denaro. Insomma non sono ricchi tanto per il denaro che hanno, quanto per quello che sono in grado di farsene prestare. Ad un impiegato statale nessuno presterebbe un miliardo, perché nessuno potrebbe credere che egli possa essere in grado restituirlo, ma a chi ha già dei miliardi, tutti, anche le banche, prestano volentieri un miliardo, contando sul fatto che egli potrà restituirlo. E’ per questo che un miliardario vero di solito va in giro senza denaro in tasca, perché non ha bisogno di spenderlo, essendo tutti disposti a vendergli qualsiasi cosa con la sicurezza che prima o poi saranno pagati. Nei confronti di questi miliardari, non dei primi, che mi hanno fatto sempre pena perché non riescono a godere delle proprie ricchezze, ma dei secondi, per lo più imprenditori in diversi campi del settore produttivo o distributivo, ho avuto a volte una specie di soggezione, non dico deferenza, questa no, ma, ecco, una sana soggezione, una forma di rispetto, per capacità che gli ho riconosciuto di essere a volte partiti dal nulla e di essere riusciti a fondare veri e propri imperi finanziari. Ho avuto per loro quel rispetto che si deve a chi è diverso e io avvertivo la loro grande differenza rispetto a me, avendo io capito abbastanza presto che la mia vocazione non era quella di avere un buon rapporto con il denaro, disprezzandolo a sufficienza per essere sicuro di essere ricambiato da esso con eguale disprezzo.

 

     Avendo poi avuto la conferma che le nostre strade, dico la mia e quella del denaro, non si sarebbero mai incontrate, ho nutrito rispetto per chi tanto felicemente riusciva a battere le stesse strade battute dal denaro, venendone lautamente compensato. E poi via, mi sono sempre detto, bisogna inchinarsi a chi deve pur avere indubbie capacità se imprenditorialmente si è rivelato e confermato persona di successo.

      Nei confronti di questi miliardari, i secondi, perché i primi non mi hanno fatto che pena e non mi sono mai aspettato niente da loro, mi sono sempre mostrato impreparato a fronteggiare la sorpresa che prima  o poi hanno destato in me, quando ho scoperto, gradualmente, che dietro le loro capacità imprenditoriali c’era una carenza culturale straordinaria, fatta di un’assenza di nozioni e di conoscenze che il mio modello di riferimento classico non mi consentiva di giustificare. Avendo seguito la lezione di chi ci insegnava che la poesia non dà pane, e non quella di chi predicava che “pecunia non olet”, avendo frequentato scuole in cui si leggevano testi filosofici, di Kant o di Hegel, o poetici, di Leopardi o di Baudelaire, e non scuole in cui si leggevano i manuali su come compilare bene una cambiale o effettuare un bonifico bancario, mi sono sempre considerato inadeguato nel giustificare come si potesse mettere insieme un discorso senza capo né coda dal punto di vista formale, sconclusionato dal punto di vista strutturale e scorretto dal punto di vista grammaticale e sintattico. Così ogni volta mi son dovuto mettere a riflettere su quanto fosse ingiusto che il destino premiasse con una straordinaria ricchezza persone tanto carenti sul piano culturale e nel contempo penalizzasse con una grama povertà persone tanto ricche culturalmente e spiritualmente. Ogni volta non ho capito verso quale divinità dovessi elevare la mia protesta per aver costretto a vivere di stenti letterati e poeti e a morire in povertà artisti delle cui opere avrebbero poi, dopo la loro morte, vantano il possesso quei miliardari tanto ricchi da potersene permettere l’acquisto, pur senza essere capaci di intenderne fino in fondo il valore culturale, non limitandosi alla considerazione del solo loro valore venale.

      Poi ogni volta mi sono fatto una ragione di quel vivere da nababbi pur non riuscendo a parlare un italiano corretto, senza sgrammaticature e castronerie lessicali, ma vantandosi di una serie di status symbol con i quali si cerca di nascondere la propria ignoranza, o la propria mezza-conoscenza- e di far credere che invece la capacità mostrata nel campo imprenditoriale ed economico possa far credito anche in campi diversi, perfino in quello culturale.

      Mi è accaduto però, nel corso della mia vita, di trovarmi ancor più impreparato di fronte ad altre sorprese, troppo eclatanti per poter essere elaborate. E’ accaduto molte volte di trovarmi di fronte a “sgrammaticature” (concetto che uso qui in senso lato), o ad autentiche castronerie sul piano culturale, di persone che operavano, in vari settori, proprio nel campo culturale: colleghi insegnanti, presidi, giornalisti, scrittori, dal cui labbro o dalla cui penna ho sentito fluire delle incredibili “smarronate”. Errate coniugazioni verbali, ardite costruzioni lessicali, mancate concordanze di generi, parole pronunciate con significati non propri, citazioni sbagliate di nomi e di detti, false attribuzioni di frasi e di concetti, offese alla “consecutio temporum” suonano più scandalose se autori e responsabili ne sono addetti a lavori intellettuali e culturali, da cui solitamente ci si aspetta una più completa preparazione e una più rara possibilità di sbagliare. Ma mi è accaduto di leggere o di sentire cose veramente incredibili e ogni volta mi sono meravigliato e stupito e sono rimasto incredulo. Sentire un docente universitario o a volte un rettore infilare uno dietro l’altro un “piuttosto” al posto di un “oppure” o sentirgli rispondere ad una domanda con un “assolutamente”, senza specificare se si intende dire sì o no, lo ammetto, ancora oggi mi fa senso. Ancora di più se mi accorgo che, come a volte avviene, oltre che essere un lavoratore intellettuale è anche un miliardario.