Il corrosivo del  4 gennaio 2011

    

     Molti la chiamano “la generazione senza futuro”, molti altri “la generazione senza speranza”. Io la chiamo “la generazione senza speranza nel futuro”. Dicono che si tratta di giovani e di giovanissimi che lavoreranno, quando lavoreranno, da precari, che avranno, quando l’avranno, un salario da poveri e che percepiranno, quando la percepiranno, una pensione da poverissimi. Loro dicono di sé di non avere sogni perché non possono permetterseli e di non avere speranze, perché anche le speranze costano; dicono di non riuscire ad immaginarsi un futuro perché non hanno un passato e vedono incerto anche il presente. Tanti giovani in passato hanno detto di sé di essere una “generazione perduta” e il disagio giovanile ha sempre rappresentato un tema importante per le teorizzazioni sociologiche e politiche, perfino letterarie. E’ difficile dire in questo momento, immersi come siamo nel fenomeno, trascinati anche noi dalla corrente del fiume, elementi corpuscolari del “panta rei”, se stavolta di stratta di qualche cosa di diverso e di più importante. E’ difficile giudicare se ci sono difformità e diversità, se ci sono novità e peculiarità singolari. E’ probabile, perché alcuni indizi ci sono che possa trattarsi di qualcosa di nuovo e di diverso, di qualcosa che non si era mai visto in precedenza, e a livello globale, come si dice, mondiale, come si dovrebbe dire. In questo terzo millennio, dopo la fine delle ideologie e il crollo dei sistemi statali retti dai principi politici, stanno emergendo realtà soprattutto economiche, slegate da principi politici, ma anche etici e morali, e il post-capitalismo sta producendo situazioni in continuo movimento, assai fluide, in cui sono le regole del mercato selvaggio le uniche ad essere applicate, ma anche contraddette ogni giorno, perché si tratta di regole mai fisse e stabili, ma, appunto, estremamente variabili.

      Nei nuovi contesti non sono più validi nemmeno i criteri interpretativi forniti dalla scienze storiche, perché in regioni inesplorate di una realtà che va facendosi ogni giorno sempre più complessa non esistono bussole rese affidabili dalle esperienze del passato e la considerazione di ciò che è stato risulta inutile ai fini di una previsione a breve, ancor meno a lunga, distanza. Quasi tutte le categorie storiche valide per le messa in ordine concettuale del percorso compiuto fin qui dall’umanità risultano svuotate e inapplicabili. Ne occorrerebbero di nuove, ma andrebbero validamente testate: la freneticità dei mutamenti impedisce ogni tentativo di validazione e di conferma. Non si vede, perciò, come questa “generazione senza speranza nel futuro” potrebbe accreditarsi e appropriarsi di un proprio ruolo, sostituendosi a quelle precedenti, rese longevi dagli accresciuti standards sanitari, almeno in quella parte del globo terrestre dove è stata sconfitta la denutrizione.       

      Soprattutto in Italia le nuove generazioni fanno fatica ad affermarsi, perché i cambiamenti, pur accelerati, sono ancora più lenti che altrove e la mobilità sociale non ha ancora raggiunto livelli accettabili; resta alto il divario tra il numero di chi paga le tasse e di chi non le paga; resta una notevole sproporzione tra i redditi da lavoro e le rendite di posizione; permane un forte divario tra il contributo economico e sociale che danno alle risorse collettive coloro che vivono di ciò che producono, produttori o imprenditori che siano, e coloro che vivono di ciò che possiedono. Sembrerà strano, ma in Italia ancora risentiamo dei guasti provocati dall’aver conosciuto la Controriforma senza aver beneficiato della Riforma, risentiamo dell’inanità degli sforzi compiuti in una secolare, quanto improduttiva, ansia di riforme, riforme economiche, politiche e sociali. Quelle che sono state via via spacciate per riforme non lo erano e non sono state percepite come tali, né lo potevano essere. Quelle che sono state promesse non sono state mai realizzate e quelle che vengono promesse adesso sappiamo già che non lo saranno. Alcune piccole riforme, vere e proprie micro-riforme, sono state spacciate per grandi riforme e si sono rivelate meno che piccole, subito abbandonate a beneficio di controriforme che hanno fatto fare agli italiani due passi indietro dopo un solo passo avanti. Ogni possibilità di modifica in Italia viene affidata solo all’evoluzione, cioè ad una transizione graduale e appena percettibile, mentre in altre nazioni europee modifiche radicali sono state possibili solo grazie a grandi rivoluzioni. Cosa sarebbe stata la Francia senza la Rivoluzione francese e cosa sarebbe stata l’Inghilterra senza le sue due grandi rivoluzioni? Sia quella francese che le due inglesi hanno avuto conseguenze positive su tutta l’Europa e anche in Italia se ne sono avute, di riflesso. Nella nostra penisola, invece, nel nostro “Bel Paese”, non c’è stata nessuna rivoluzione autentica e anche quella che si autodefinì tale, la Rivoluzione Fascista, non fu rivoluzionaria, perché a parte la meritoria certificazione della morte dello Stato Liberale, che morì di morte naturale e per dissoluzione, non portò ad altro che alla costituzione di uno stato sociale, diventato però ben presto assistenzialista, monarchico e ultraconservatore, salvo una resipiscenza che si ebbe con la Repubblica Sociale Italiana che ne fu l’epigono.

      In Italia il popolo ha sempre temuto le rivoluzioni, o quanto meno non le ha mai amate, perché costano un tributo di sangue che gli italiani non sono disposti a versare, soprattutto nei giorni di domenica e di festa, concedendosi tutt’al più qualche sommossa popolare, vedi Masaniello, Cola di Rienzo e Ciceruacchio, finita amaramente in pochi giorni in un clima da gran Pulcinella. Per il resto non abbiamo mai dato l’idea di essere in grado, in nome della rivoluzione, o di essere disposti a prendere in considerazione la possibilità di decapitare teste di sovrani regnanti. Al massimo ci siamo sentiti in grado di far rotolare teste finte, cioè statue, di sovrani già caduti per venuta meno virtù, in fatidiche giornate come il 26 luglio o il 9 settembre, cioè quelle qualificabili come “il giorno dopo”, perché farlo proprio in “quelle” giornate sarebbe stato troppo pericoloso.

      Dunque, “la generazione senza speranza di futuro” dovrà contare, se vuole affermarsi, in una evoluzione, non in una rivoluzione, e il proprio spirito di rivolta, ammesso che l’abbia, lo vedrà progressivamente attenuarsi, a mano a mano che cresceranno l’età e il bisogno, approdando, come sempre, sul piano individuale, nell’unica soluzione possibile: affidarsi al potente di turno, offrendo il proprio consenso elettorale in cambio di protezione ed entrando a far parte di clan e di clientele. L’italiano medio non conosce altre risorse, perché da secoli ha imparato quale strumento impagabile di sopravvivenza sia il motto partenopeo: “O Franza o Spagna, basta che se magna.”