Il corrosivo del  28 dicembre 2010

    

       Mi capita a volte, specialmente nei periodi di lunga permanenza in questa mia città dopo altrettanto lunghi periodi di assenza, di avvertire quella sensazione che viene definita “stare in un ventre di vacca”. Teramo mi appare davvero, grazie a quella sensazione, il caldo ventre di una vacca. I telegiornali continuano a parlare di piogge torrenziali e di esondazioni di fiumi e qui a Teramo tutt’al più abbiamo qualche scroscio o un lento piovigginare; le gazzette ci portano le notizie di terribili sciagure e qui tutt’al più abbiamo fatti di cronaca che ci inquietano appena. D’estate poi prevale la lunga litania di lamentele per il gran caldo e qui da noi, anche quando c’è, l’afa non è mai così insopportabile, attenuata verso sera dall’aria di Magnanella. Sembra quasi che, mentre tutt’intorno a noi, la realtà sia per molti versi terribile, qui da noi essa non si presenti mai in forme insopportabili e ogni fenomeno, naturale, meteorologico, sociale e culturale, non si presenti mai in forme estreme o estremizzate. Tutto si manifesta in forme mediane, attenuate, senza virulenza.

      Da questo si origina quel sentirsi in un ventre di vacca, in un contesto scevro di preoccupazioni e angosce, e così favorevole ad una vita rilassata. Il tempo scorre lentamente, ma non troppo, come accade invece nelle città del sud, e non così velocemente, come invece accade nelle città del nord, dove la frenesia uccide il sapore della vita. Siamo veramente nel centro dell’Italia e facciamo nostro il proverbio “in medio stat virtus”. I nostri ricchi non sono poi ricchissimi, i nostri poveri non sono poverissimi, i nostri disoccupati non sono poi così tanti e così disoccupati, i nostri anziani non sono proprio così rincoglioniti e i nostri giovani non sono proprio così dissennati. La nostra economia, pure in crisi, non è poi al dissesto completo e il nostro commercio non va verso il fallimento irreversibile. Il ventre di vacca è accogliente e i forestieri che vi capitano vi si abituano facilmente, bene accolti e riveriti, senza pregiudizi e anzi con un pizzico di esterofilia, vengono subito favoriti con una cittadinanza onoraria di fatto e adottati. A volte vengono preferiti agli autoctoni, che non se ne lamentano più di tanto.

       I teramani fanno loro un ritmo di vita che richiama “gli ozi di Capua”, senza però raggiungerne l’eccesso, trasmettendo a chi arriva all’ombra del Duomo il gusto della pigrizia e dell’inutilità dell’intraprendenza. I dizionari definiscono con il termine “invacchire” quel sentirsi così in un ventre di vacca, protetti e al sicuro, mentre tutt’intorno ci si agita con spirito di intraprendenza. I sibariti, gli abitanti di Sibari, erano così pigri che qualcuno di loro si lamentava che un vicino si desse troppo da fare, perché sosteneva di sentirsi stanco al solo vedere un altro che lavorava. I teramani non sono come i sibariti e non si sentono stanchi quando vedono gli altri darsi da fare, ma solo quando sono costretti loro a darsi troppo da fare. E preferiscono starsene mollemente al sole d’estate e al calduccio d’inverno, senza fare troppo e senza fare molto, senza eccedere in alcunché. Parlano male della loro città, ma non amano che a parlarne male siano gli altri, ma quando gli altri lo fanno non se la prendono più di tanto. Delegano ogni scelta pubblica agli altri, perché per loro la politica non consiste nello scegliere insieme cosa fare per la loro città, ma nel delegare ad altri, i politici, ogni possibilità di decisione, rivolgendosi poi a loro per la soluzione delle loro esigenze private. Il piacere della gola è il prediletto e quello più ricercato, salvo poi a trovare una psicoanalitica autopunizione nell’infliggersi ore ed ore di frequentazione di una delle tante palestre che assai più numerosamente che altrove sono prolificate. Ogni ambascia e ogni paura del futuro scompare di fronte ad un paio di mazzarelle e il teramano è felice quando il desco sorride e si prospetta un cenone. Qui da noi il troppo non diventa mai l’eccessivo e il poco non diventa mai il pochissimo.

        Eppure… eppure questo stare e sentirsi in un ventre di vacca ha i propri effetti collaterali negativi. Spirito di intraprendenza? Nessuno. Tendenza a prendere iniziative e intraprese imprenditoriali? Pochissima. Voglia di darsi da fare? Scarsa. Il “chi me lo fa fare” diventa uno stile di vita e così accade che i pubblici funzionari dopo un po’ che sono arrivati in mezzo a noi si adeguano al tran-tran quotidiano e a poco a poco tirano i remi in barca. Così accade che la partecipazione scema, la vigilanza scarseggia, l’approssimazione vince, “l’accontentamose” trionfa e l’accidia (per chi non lo sapesse l’avversione all’operare, mista a noia e indifferenza) viene incoronata regina e le si affidano come damigelle la pigrizia e l’ignavia. Le nostre scale graduate non misurano mai stati e condizioni che si pongano al limite, siamo ignoranti ma non ignorantissimi perché la nostra ignoranza è indiscutibile, ma non crassa, siamo colti, ma non coltissimi, perché il nostro sapere arriva solo fino ad un certo punto. I nostri politici non sono illustrissimi, anche quando vogliono dare l’impressione di esserlo, ma non sono proprio come Scilipoti e anche la corruzione, che pure c’è, non raggiunge il livello di esecrabilità e di gravità penale che si registra altrove. Non siamo immuni dall’immoralità, ma Teramo non è Sodoma e non è nemmeno Gomorra, anche se qualche infiltrazione camorristica e mafiosa la stiamo conoscendo. Il trasformismo viene praticato, ma con misura e moderazione, perché a Teramo nulla è smisurato e tutto viene contenuto entro limiti accettabili.

         Il ventre di vacca, dicevo. Ci si sta bene sia d’inverno che d’estate, è accogliente, rassicurante, non ci fa mai troppo freddo e mai troppo caldo, c’è sempre il giusto tepore, gli agi sono contenuti e i pericoli limitati. Se arriverà la tormenta, basterà restarsene “attoppati”, come in un rifugio, aspettando che passi, perché è vero che chi non risica non rosica, ma è altrettanto vero che chi risica può rosicare lo stesso, in un significato del tutto teramano, che non è certo quello dell’accumulare ricchezza, ma quello del rammaricarsi di ciò che si è perduto per avere osato troppo. La tormenta passerà, deve passare. Prima o poi passerà. Perché a Teramo una tormenta non è mai una vera tormenta, come una tragedia non è mai una tragedia e un dramma non è mai un dramma, un fallimento non è mai un fallimento e sia le cose buone che le cose cattive non sono mai né troppo buone né troppo cattive. Se il troppo stroppia, qui a Teramo non esistono gli storpi. Quando siamo ricchi o poveri, ignoranti o colti, pigri e intraprendenti, buoni o cattivi, lo siamo sempre nella giusta misura.