Il corrosivo del  16 novembre 2010

      

      Avete presenti quelle giornate in cui, ammantato il paesaggio che vi circonda da una spessa coltre di neve, ogni rumore vi giunge attutito e ogni vostra percezione acustica sembra ovattata, come se niente e nessuno potesse mai giungere a disturbarvi con strepito e fracasso? Ecco, io mi trovo da qualche giorno in una situazione analoga, per una mia vicenda personale che, sia sul piano psicologico e sensoriale che sul piano concettuale, mi rende difficile o impossibile la lettura e i rumori della cronaca mi giungono attutiti e ovattati, percepiti mediante il racconto o la lettura di amici solerti, ai quali tributo il mio ringraziamento. In questi casi, e in queste situazioni, quando si è in lotta contro pessimistiche considerazioni e tristi riflessioni che riportano ai grandi temi della vita, ben pochi sono i fatti che possono risultare abbastanza significativi per poter richiamare la precedente prestata attenzione, anche quando sono ammalianti per l’interesse, che è scarso, o striduli e fastidiosi per l’umore. La vita è come sospesa e si galleggia, si presta molta cura a dove poggiare i piedi per non inciampare anche sul piano dell’elaborazione panoramica di una realtà fattuale che giunge attraverso il filtro del racconto altrui, non percepita calcando le strade e le piazze o incontrando la gente.  

       So tutto questo, mentre per qualche istante penso a questa mia città, che troppo spesso negli ultimi tempi  ho percepito come “mia”, forse perché troppo svillaneggiata da chi pensa di poterla ridurre a cosa soggetta al proprio personale prestigio. Sempre che si tratti di ricerca di prestigio e non, come pure amaramente si potrebbe ipotizzare, a qualche cosa d’altro, di conio peggiore. Da quel che sento, mi pare che in questa “mia” città imperversi un furore di erezione di statue, di “erme” (il termine venne inizialmente utilizzato per indicare le statue del dio Ermete e fu successivamente applicato, per estensione, ad altre statue sia di dei che di illustri personaggi), come quello che si impadronì dell’Atene periclea e che tanto dispiacque da produrre il fenomeno dei tagliatori di erme, tra i quali furono annoverati anche illustri personaggi quali Alcibiade, almeno stando alle accuse.

        Questo furore non fu poca cosa anche nella Roma di Augusto, quando sembrava che nulla valesse se non meritasse l’erezione di una statua, e nella Roma di Caligola, quando furono erette statue anche ai gatti di case patrizie, per perpetuarne la memoria. Chi è questo Pericle impazzito che sta disseminando di statue i nostri viali, le nostre piazze, i nostri slarghi? Chi è questo innalzatore di erme, pronto a fulminare chi dovesse essere sospettato di averne abbattuta o anche solo criticata una? E sulla base di quale disegno decide, opera, si muove, distribuisce e assegna siti? Chi è questo Minosse che tutto giudica e avvinghia con i suoi tratti di coda? Mi si dice della statua di un Garibaldi appiedato, senza il suo celebre cavallo bianco (e nemmeno nero), con in un pugno una spada (come in effetti apparve ad Aspromonte, quando fu l’Italia che lo considerò suo nemico), in una posa che sembra essere non quella dell’Eroe dei due mondi, ma quella del generale Custer alla testa del suo Settimo Cavalleggeri, rivolto non verso Roma, ma verso Giulianova.

        Mi si narra che questa statua sia stata eretta non nella piazza già dedicata al suo nome, e dove da tempo i teramani tengono affissa una lapide in sua memoria, ma in una piazza che, dopo essere stata intitolata ad Aldo Moro, oggi è dedicata all’esaltazione della Libertà, di fronte a quella che per i teramani è sempre stata, fin dal quattrocento aragonese, la Porta Reale. E’ una piazza dove si trova già eretta un’altra statua volta a perpetuare i valori della Resistenza e da cui pare sia stata disinstallata, per essere destinata altrove, una statua che esalta il multiculturalismo. Intanto nel viale dei Tigli sono già affastellate altre erme di personaggi diversi, che non hanno niente in comune tra di loro, perpetuandosi tra l’altro in tutto il tessuto urbano un’estrema confusione di eventi e personaggi storici, in una stratificazione temporale anacronistica e senza un filo di logica, possibile solo in una città che purtroppo sta diventando sempre di più immemore della propria storia. Per questo è stato possibile che via degli Spennati si trovi proprio nel quartiere dei Mazzaclocchi, che furono i loro odiati nemici, e non nel loro quartiere, dove solo di recente è stata restaurata la casa dei Melatino, che degli Spennati furono i progenitori illustri.

       Mi vengono in mente altri esempi di oltraggi alla storia e al buon senso nella toponomastica cittadina di Teramo, ma li ometto, perché a questo punto mi sembra perfino inutile, oltre che superfluo, far presente ai miei concittadini quale delitto si compia nell’affidare se stessi e la cura della propria storia e della propria cultura a chi si illude di poter essere per Teramo ciò che fu Mecenate per Roma. Sono curioso di sapere se avrà l’ardire di fare ciò che Mecenate non ebbe nemmeno il coraggio di pensare: lasciare indicazioni su dove vorrà che sia eretta una statua alla propria memoria. E se a piedi o cavallo.