Il corrosivo del  12 ottobre 2010

      

        La storia è sempre stata scritta dai vincitori, i quali hanno imposto universalmente, anche ai vinti, una “vulgata” narrativa basata su assunti presi per definitivi e spacciati come giudizi irreversibili, tanto da parlare di “giudizio della storia”, per definizione inappellabile. “Questi fatti sono stati giudicati dalla storia” viene poi detto, come se la storia desse giudizi e per di più inappellabili. E invece non ne dà. La storia, sia quella scritta con la “s” minuscola”, sia quella scritta con la “S” maiuscola, che viene considerata sacra, intoccabile, assoluta, e, soprattutto esistente (mentre invece non esiste), non dà giudizi, non ne dà mai, non essendo come la Religione, o come la Morale, o come la Giustizia. La storia racconta, punto e basta, servendosi di criteri che sono soggettivi e perciò relativi, e quindi mutevoli, dipendenti dalla circostanze di luogo e di tempo.

        Il racconto storico è, per sua natura, non univoco, ma duplice, triplice, quadruplice, molteplice. Per questo ogni epoca e ogni società e ogni tempo “riscrivono” la storia, la narrazione cambia e i fatti vengono re-interpretati, alla luce di nuovi documenti, prima ignorati, o di nuove considerazioni, prima non espresse. Quando la storia viene ri-scritta, sulla base di esigenze di ricerca scientifica e di obbligo culturale e intellettuale, quelli che la ri-scrivono vengono etichettati con un termine che vuole essere dispregiativo: “revisionisti”. Essere revisionisti è considerato poco meno che essere appestati e ad essere presi per tali si corre il rischio di essere messi al bando, salvo veder riconosciuti i propri meriti con grande ritardo e considerati innovatori post mortem. La necessità di ri-mettere in discussione ogni elemento, di sottoporre al vaglio critico ogni convinzione, di essere pronti a rovesciare non solo la prassi, ma anche la teoria (storica) è comune a tutte le scienze, e quindi anche alla storia, quando vuol essere scienza ed essere considerata tale.

         Ci sono fasi e personaggi della storia per i quali questa necessità di ri-discussione viene universalmente riconosciuta. Ma per altre fasi e per altri personaggi e per altri fatti questa necessità di ri-discussione viene non solo negata, ma perfino considerata reato penale e grave lesione di sacralità. E’ per questo che, quando qualche storico, Faurisson, Irving o Moffa, si permette di ri-flettere, di ri-discutere, di ri-pensare, di ri-considerare un preciso fatto storico: la persecuzione degli ebrei da parte del nazional-socialismo, alla ricerca di una ri-verifica dei fatti, tanto comune per ogni altro fatto storico, si scatena la canea urlante di quanti gridano “dagli al negazionista” come nella Milano di Renzo e Lucia si gridava “dagli all’untore”. Si leva un coro più alto di quello dell’”Adelchi” e guai a farsi sorprendere fuori dal coro. Anatemi, florilegi di contumelie, scomuniche e severe condanne vengono indirizzate agli “untori-negazionisti”, anche se non ungono e non negano e si affannano, ma inutilmente, a dire e a ripetere che la loro intenzione è solo quella di voler riflettere su ciò su cui non si è riflettuto abbastanza, prendere in considerazione ciò che non è stato considerato, capire ciò che non è stato capito, spiegare ciò che non è stato spiegato.

        E invece no. Questo diritto viene negato, anche quando si tratta di un diritto-dovere di scientificità, in questo caso storica, e di ri-pensamento del ri-pensabile. No, si pretende che l’Olocausto, la Resistenza, il Razzismo, il Fascismo vengano considerati sempre allo stesso modo, come mostri sacri, nel bene e nel male, ciascuno per la sua parte; si pretende che la storia continui ad emettere condanne morali e che il riconoscimento ufficiale del loro stato dia alle vittime il diritto di essere carnefici, magari in un altro contesto storico, del tutto diverso. Ma il vittimismo non può pagare per l’eternità e non giustifica il diritto ad essere risarciti sempre, comunque, in eterno e al di là di ogni possibilità di interrogarsi su ciò che veramente è stato.

        Sulla storia del secolo scorso, così tormentata e difficilmente interpretabile, non è possibile circoscrivere aree di pertinenza esclusiva, recintarle col filo spinato, proprio come nei campi di concentramento della Germania hitleriana, e issare un cartello con la scritta: “Chi tocca i fili muore”.