Il corrosivo del  28 settembre 2010

      

    

     Assolvo sbrigativamente (lo ammetto) al rito doveroso delle litanie e delle giaculatorie che sembra essere ed è prassi costante in questi casi: “facciamo che la magistratura faccia il suo dovere e accerti la verità; non basta prendere in considerazione gli elementi accusatori, ma anche le argomentazioni difensive; nessuno può essere considerato colpevole fino al giorno del giudizio finale di terzo grado (pur sapendo che per Qualcuno occorrerà aspettare poco meno che il giudizio universale per avere finalmente una sentenza definitiva) e bla bla bla…” Le formule che ho omesso ce le metta il lettore.

     Dopo di che, rimesso ogni giudizio penale a chi giudizi penali dà per definizione e per ufficio, lasciate che io, da cittadino ed ex elettore, dia qualche giudizio non penale, ma politico e morale. E lasciate che io, sulla base di quello che so e che leggo, pronunci tutta intera e inappellabile la mia condanna. Sì, io condanno questo sistema di potere che ho sempre denunciato, questa cupola politico-affaristica-imprenditoriale-massonica che ha gestito il potere in Abruzzo e a Teramo a soli fini clientelari, quale che fosse il colore politico di appartenenza.

     Per esprimere questo giudizio di condanna, non ho bisogno di sapere se i reati contestati siano stati realmente consumati, mi basta conoscere (e trovare dentro di me la forza di scandalizzarmi ancora e di indignarmi) quello che emerge dalle intercettazioni (che vogliono abolire, ma che, fino a quando non le aboliranno sono sempre elemento di valutazione, non solo giuridica), e che dimostra tante cose, confermando l’esistenza di quella cupola che ho sopra richiamato e di cui ho sempre parlato e scritto. Mi basta sapere che cosa certi politici si dicevano tra loro, che cosa dicevano a certi spregiudicati imprenditori e che cosa si lasciavano dire senza correre a fare denuncia in Procura, mi basta sapere delle contribuzioni elettorali che accettavano e qualche volta sollecitavano, per loro stessa ammissione, ben sapendo che chi li concedeva non lo faceva per spirito misericordioso o per innata generosità, ma perché avrebbe chiesto qualche favore in cambio o ringraziava per averlo già ottenuto. Mi basta sapere come un ex assessore regionale qualifica i suoi ex colleghi, che lei accusa di non averla difesa così come stanno facendo con un altro loro collega colpito da provvedimenti restrittivi: “una banda organizzata di delinquenti”, espressione linguisticamente assai simile a quella (“associazione a delinquere”) che nel codice penale qualifica un grave reato, che infatti viene contestato dalla Procura di Pescara.     

     Mi basta sapere di uno spregiudicato comportamento, che nei politici non è solo disdoro, ma colpa grave. Mi basta sapere delle pressioni che alcuni politici subivano (senza lamentarsene) da altri politici o imprenditori che contavano più di loro, e delle pressioni che altri politici (e a volte gli stessi) esercitavano nei confronti di altri politici o altri imprenditori che contavano di meno. Mi basta sapere che il fine a cui questo modo di fare politica puntava non era il benessere della collettività (che è il fine ultimo della politica), ma di pochi privilegiati (che è il fine ultimo di un uso strumentale e privatistico della politica). Per esprimere il mio giudizio di condanna, etico-politico-morale, mi basta sapere dove, come e perché si incontrassero politici ed imprenditori, a volte fuori, altre volte dentro le loro logge, e in vista di quali obiettivi lo facessero. Mi basta sapere come di fatto piegassero le leggi e i regolamenti alle loro necessità e non viceversa e come, avendone bisogno, facessero nuove leggi e nuovi regolamenti ai loro fini più funzionali. Mi basta sapere (e tutto quanto ho detto dalle intercettazioni emerge “ad abundantiam”) che questo sistema di potere si preparava ad un salto di qualità nell’assalto alla diligenza della cosa pubblica, nell’indifferenza di una certa magistratura e, per fortuna, nella perspicace attenzione di un’altra. Mi basta tutto questo. Ma mi pone alcuni interrogativi, alcuni li definisco maggiori: quanto sono profonde le radici di questo bubbone? Fin dove si è estesa la piovra? Ha tentacoli sufficientemente lunghi e grossi per avviluppare chi indaga e intralciarne il corso?

     Altri interrogativi sono minori, ma qualcuno tra essi cerca di meritarsi il passaggio al grado superiore (ovviamente nella mia considerazione personale): non sarebbe il caso che la magistratura cercasse di vedere bene se c’è qualcosa di opaco (o di poco chiaro, il che è lo stesso) in altre vicende, quali alcuni project financing  (Costruzione di un nuovo teatro sull’area del vecchio campo sportivo comunale? Poli scolastici?) in cui è stroppo sbilanciato il divario tra ciò che il pubblico concede al privato e ciò che ne ottiene in cambio sul piano della pubblica utilità?

     Concludo con due osservazioni semplici semplici. La prima: ritengo debole l’argomento difensivo che vuole non provato un reato di “mazzetta” (diciamola così, semplificando), se la mazzetta non viene trovata, ma si ha da un’indagine la prova che è stata versata. Sono centinaia i casi in cui non viene trovato il bottino di una rapina, ma i rapinatori vengono condannati lo stesso, sulla base di altri elementi. La seconda: gli “assolvitori” (o, se preferite, gli “assoluzionisti”, ma loro si auto-definiscono “garantisti”)  si affrettano sempre a dirsi pronti a “mettere la mano sul fuoco”, certi come sono della correttezza o dell’innocenza di questo o di quell’altro accusato. Io la mano sul fuoco non la metto preventivamente per nessuno, perché a furia di farlo si fa sempre la fine di Muzio Scevola.