Il corrosivo del  15 giugno 2010

     Gran bontà dei proverbi antichi! Che ha altro può raccogliere chi semina vento, se non tempesta? Che altro può partorire il sonno della ragione, se non mostri? Che si può imparare da uno zoppo, se non a zoppicare? E così via… potrei proseguire per un bel po’. La saggezza popolare sta tutta in quegli antichi proverbi ed è tanta. Così, per proseguire ancora un po’, tutti i nodi stanno venendo al pettine. Vi ricordate quando sembrò che Lino Befacchia e i suoi sodali avessero trovato nella politica teramana l’uovo di Colombo, la quadratura del cerchio, la lucida pazzia in grado di dare una svolta destinata a durare nei secoli? L’ex preside, che anche in politica non riesce a fare altro che confermarsi tale, cioè ex preside, con la sua autorevolezza da intellettuale sembrò avallare, o teorizzare, una strategia a tutto campo alla quale si affidava il compito di dare al centro-sinistra teramano una stella polare che ne guidasse il cammino, acciocché i viandanti (di sinistra) non si smarrissero lungo il percorso nelle notti senza luna.

     Strumenti di quella strategia, che si autodefiniva “di lunghe vedute”, erano alcuni accordi tattici, che prevedevano un’alleanza tra i partiti del centro-sinistra e una nuova formazione, l’Udt, nella quale s’erano adunati alcuni personaggi politici di lungo corso in cerca di una collocazione e di una nuova identità, e la formazione di una lista di candidati al comune di Teramo, chiamata, “immaginificamente”, “Città di Virtù”.  C’erano poi altre piccole scelte tattiche di minore portata, ma, come quelle più grandi, venivano accreditate dai propulsori come improntate a spirito etico e ad un rinnovato e ritrovato codice di sani comportamenti. Il risultato di questa strategia fu costituito da una candidatura a sindaco di Teramo di Paolo Albi, che pareva a molti inspiegabile e ingiustificabile, e ad un rilancio di Lino Silvino sul piano provinciale, scelta altrettanto inspiegabile a considerare che il conte di Piano della Lenta già nei suoi tempi d’oro non contava quasi nulla al di fuori della sua contea. E infatti la sua sconfitta portò con sé la sconfitta anche di D’Agostino in provincia e la candidatura di Albi si rivelò per quello che era, un errore senza senso. In questi giorni, a distanza di tempo non siderale, stiamo arrivando agli epigoni di quella scellerataggine, la cui realtà maligna molti di noi avevano già intravisto a suo tempo proprio nei proverbi antichi evocati all’inizio.

     La strategia “alta” di cui Befacchia si fece portatore non sano ha individuato, non senza polemiche, una collocazione nemmeno tanto nobile e dorata per Silvino a Campli, una frenetica attività per trovare una soluzione identica a beneficio di Albi e un mutamento di campo di una consigliera eletta nella fatidica “Città di Virtù”, passata in maggioranza con la giustificazione di essersi stancata di stare in un’opposizione che sa dire solo no, quando si dovrebbe dire, a volte, sì. La comicità surreale di una tale giustificazione sta nel fatto che questa consigliera sembra non essersi resa conto che, al contrario di quel che dice, l’opposizione di cui faceva parte brillava, negativamente, proprio per non sapere mai dire dei no convinti, dicendo al massimo qualche “ni” (o no a metà), o qualche “so” (sì a metà), per non essere una vera opposizione, e per non saper esprimere mai una visione alternativa delle cose, dando l’impressione di puntare soltanto ad un indistinto e vetusto consociativismo.

     Alla faccia! La dottoressa Di Saverio, perché è lei la consigliera salita sul carro dei vincitori, eletta nella lista “Città di virtù”, si dedica con fervore al vizio antico del trasformismo politico, cui furono dediti nel passato fior di galantuomini e di gentildonne attratti dagli splendori delle maggioranze, in cerca dei quali abbandonarono le stamberghe scomode delle opposizioni dicendo di farlo per spirito di sacrificio e per il benessere dei propri elettori. Non conosco la dottoressa Di Saverio, ma conosco Lino Befacchia, di cui sono amico. E gli chiedo: quando, amico mio, ti vedrò intento a batterti il petto gridando “mea culpa”, roso dal rimorso e dal pentimento, per aver contribuito a creare simili “mostruosità”?