Il corrosivo del  25 maggio 2010

A distanza di qualche anno dalla sua morte (1979) e dalla pubblicazione di una delle sue opere più importanti (“L’uomo a una dimensione”, 1964)  il pensiero del filosofo tedesco Herbert Marcuse si è consolidato nella considerazione degli storici della filosofia, ma è scomparso, almeno così sembra, dal dibattito politico-culturale europeo (e italiano). Eppure non poche sue analisi della società e della sua evoluzione (involuzione), a considerarle oggi, risultano assai lucide e lungimiranti. Sarebbero e sono assai utili per interpretare l’attuale momento di crisi, sia in campo economico che in quello politico e culturale. Marcuse divenne il filosofo più celebre e addirittura osannato durante l’esplosione del movimento studentesco e della rivolta giovanile del 1968, di cui seppe cogliere, e qualcuno dice perfino ispirare, la portata e la valenza, ma di cui seppe anche profetizzare il declino e, pessimisticamente, anticipare gli esiti. Io trovo soprattutto l’opera che ho citato, “L’uomo a una dimensione”, ancor più che l’altra, altrettanto celebre (“Eros e civiltà”, 1955) una specie di vademecum utile, e addirittura indispensabile, per percorrere in senso interpretativo la regione per molti versi inesplorabile e non facilmente comprensibile del nostro assetto politico, quello italiano intendo. Riducendo all’osso il pensiero di Marcuse espresso in questo libro (non si può fare altrimenti in questa sede), si sostiene che importanti e negative conseguenze, con l’avvento di un ordine sociale di fatto totalitario, si verificano quando una società si evolve (o, meglio si involve) procedendo non a due dimensioni (quelle di tesi e antitesi della dialettica), ma ad una sola dimensione (una tesi senza antitesi). L’uomo ad una dimensione (cioè una società politica in cui il sistema ha inglobato le forse anti-sistema) è zoppo; è come se procedesse su un piede solo, in pratica saltellando e procedendo a fatica o per nulla, mentre il bipede ha bisogno di entrambi i piedi per produrre il movimento e spostarsi. In questa società l’individuo, ridotto a consumatore, vede ridotti gli spazi reali della sua libertà e la spinta totalitaria li annulla praticando una sorta di tolleranza repressiva. Detto in termini più semplici e pratici, è quel che accade quando in un sistema politico la maggioranza ingloba e permea la minoranza, con la scomparsa di qualsiasi forma di opposizione reale. La democrazia vive del contrasto dialettico tra maggioranza e opposizione e quando manca la seconda, la prima si fa totalità ed esercita un totalitarismo. Questo schema interpretativo lo trovo perfetto per leggere quello che sta accadendo a Teramo (ma il discorso vale per l’intera nostra regione”, sul piano politico. Adesso scendo su un piano molto più spicciolo e dico che il “brucchismo” e il “chiodismo” si stanno rivelando come dei totalitarismi, e perdono perfino qualcosa sul piano delle proprie capacità produttive (in senso politico e culturale) dalla mancanza di una reale opposizione. Al di là di qualche flebile lamento e di qualche sterile presa di posizione, chi a Teramo e in Abruzzo si oppone? Chi propone un modello alternativo a quello che viene ancora oggi definito “il modello Chiodi” o al “modello Brucchi”, che ne è la brutta copia? Chi esprime un’altra interpretazione della politica, un altro modo di cogliere la reale vocazione della società teramana ed abruzzese? La seconda dimensione, quella anti-sistema, manca; ormai facciamo parte di una sola dimensione, che permea la vita e le aspirazioni di ciascuno. Un’opposizione che non si oppone perché non è opposizione, un’alternativa che non è alternativa perché è caudataria, un atteggiamento che non risulta antitetico perché rinuncia volontariamente (o per incapacità o per viltà) ad ogni antitesi: è quanto ci mostra ogni giorno la vita politica teramana, deprimente nella sua nullità. “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, scriveva Erich Maria Remarque, facendo dell’espressione il titolo di un suo capolavoro letterario. “Niente di nuovo sul fronte teramano” scrivo più modestamente io, come epigrafe tombale del sogno di ripresa della nostra comunità. Se non fosse per il “Porta a porta”, nobile tentativo di smaltire in maniera nobile una materia non nobile come l’immondizia, di che potremmo essere fieri noi teramani per questi ultimi anni di politica ad una dimensione?