Il corrosivo del 6 aprile 2010

Quel che fa rabbia è che a Teramo è come se il terremoto non ci sia stato. Come se alcune famiglie non si trovino costrette a vivere in un’abitazione non propria, come se alcune case non siano lesionate, come se alcune nostre chiese non abbiano riportato danni, come se nella nostra provincia l’evento sismico di un anno fa si sia risolto soltanto in un grosso spavento, in qualche notte passata a dormire dentro le automobili,  in qualche frettolosa discesa dal letto in strada a tremare di paura e nulla più. Poi è venuta l’esclusione dal cratere, di questo o di quel comune, e un perimetro che è parso quello dell’ingiustizia, con la sensazione che era inutile perdere tempo a sfidare la burocrazia per cercare di ottenere ciò che non si sarebbe mai ottenuto. Per di più con la strana percezione di doversi sentire a disagio, di dover provare imbarazzo,  per non aver riportato noi teramani lutti e danni pubblici e privati toccati invece agli sfortunati fratelli aquilani. Sì che perfino il diritto al mugugno ci è stato vietato, per non sentirci accusati di essere dei privilegiati nella sventura. Il dolore per la tragedia aquilana è stato tanto anche in noi teramani, ed è stato sincero. Il ribrezzo per gli sciacalli che ridevano la notte del terremoto è stato anche il nostro, la trepidazione per un incerto futuro l’abbiamo condivisa, così come la delusione nel vedere svanire nel corso dei mesi le promesse che tanti grandi della terra avevano fatto. Portiamo anche noi teramani l’angoscia nel cuore per il timore che non si riesca a trovare le risorse necessarie per ricostruire una città bella ed unica come L‘Aquila e per vederne tornare a risplendere tutti i capolavori architettonici. Anche noi teramani ci siamo compiaciuti nel veder realizzate in poco tempo alcune soluzioni che si rendevano necessarie per affrontare l’emergenza e ci siano dispiaciuti nell’accorgerci che non tutto nell’opera della ricostruzione avviata era privo di ombre e di sospetti, nel prendere atto di un grigiore morale che non ci permetteva di distinguere il bene dal male. Ma questo non vuol dire che noi teramani non ci siamo sentiti e ci sentiamo ancora degli esclusi. Questo sottinteso quesito che percepiamo anche quando non viene esplicitato (ma voi che c’entrate?) ci ferisce, perché noi ci sentiamo partecipi, sia sul piano emotivo che su quello pratico. Anche quando avvertiamo che qualcosa continua a non andare a L’Aquila e che la spinta verso la ricostruzione si attenua, ci sentiamo coinvolti. Anche quando vediamo non del tutto negata la possibilità che la ricostruzione diventi per qualcuno un affare, ci sentiamo coinvolti. Ogni volta che sentiamo nuovamente parlare del “popolo delle carriole” ci sentiamo coinvolti e non pochi teramani almeno una volta hanno voluto andare a L’Aquila per unirsi a quel popolo. Ciò che mi disturba personalmente di più è aver avvertito qua e là l’eco di alcuni discorsi che ho trovato assolutamente fuori luogo, provenienti da entrambe le parti politiche, nel comune insano proposito di mischiare un evento tragico e le sue conseguenze con lo spirito di parte e il settarismo. Ho sentito dire da qualcuno dopo i risultati elettorali che hanno visto perdere la presidente uscente della provincia, appartenente allo schieramento di centro-sinistra: “Adesso per risolvere i loro problemi gli aquilani si rivolgano pure al governo, visto che gli è andato bene tutto quello che il governo ha fatto e ritengono di non avere altre richieste da fare. Non contino più sull’opposizione.” Ragionamento, questo, capzioso e perverso, di spudorata sfrontatezza. Ma ho sentito pure, pochi giorni prima del voto, qualcun altro dire: “Adesso gli aquilani dopo tutto quello che hanno avuto dal governo, vogliamo vedere se saranno così ingrati da votare per l’opposizione”. Questo era un ragionamento altrettanto capzioso e altrettanto perverso, anch’esso di spudorata sfrontatezza. Tutti e due i ragionamenti  hanno in comune un inaccettabile disprezzo per il dolore e per il lutto di una popolazione e di una città così duramente colpite. Si pongono sullo stesso livello di quelle risate di imprenditori sciacalli nella notte del grande terremoto.