Il corrosivo del 2 marzo 2010

Domenica mattina sono stato a L’Aquila. Non c’ero più stato, da alcuni mesi prima del terremoto dello scorso aprile. Erano tante le ragioni che mi inducevano a tornare nel capoluogo della nostra Regione. Innanzitutto un atto d’amore. Non vi ero andato prima perché volevo scacciare perfino dalla parte più recondita del mio animo ogni dubbio che potevo avere su me stesso a proposito di un’attrazione da turista sismico. Dopo tanto tempo, a quasi un anno di distanza dal tragico evento, quest’accusa non avrebbe avuto motivo di rimanere in piedi e mi sentivo pienamente innocente da un eventuale senso di colpa. Piuttosto avvertivo di dover tributare alla città tanto ferita un omaggio e la mia presenza a questo sarebbe servita. Un’altra ragione che mi muoveva ad andare era la volontà di vedere di persona, al di là di quello che mi era stato raccontato dai media, come si presentava a più di dieci mesi dal terremoto una situazione che a volte veniva dipinta in un modo altre volte in un altro. Volevo constatare di persona in che cosa erano consistiti i danni e in che cosa consistevano gli atti di ricostruzione. Un terzo motivo era costituto dall’intento di essere presente, quanto meno come testimone, alla terza manifestazione di protesta, terza in ordine di tempo, degli aquilani intenzionati a riappropriarsi della loro città e critici su un mancato avvio di un processo di reale costruzione del loro centro storico. Si preannunciava un altro tentativo di forzare i cancelli della zona rossa e di servirsi di carriole per cominciare a sgomberare Piazza Palazzo dalle macerie, sia come atto simbolico che come atto reale di una cosa che si dovrebbe fare ma che finora non s’era nemmeno provato a fare. Non sono pentito di essere andato e sono tornato da L’Aquila con il pulsare di tante emozioni, di natura diversa.  Ciò che mi ha più colpito è il senso di desolazione che mi ha dato vedere il centro storico ferito realmente a morte. Nessuna descrizione e nessun articolo di stampa avrebbero potuto darmelo e farmi capire come stessero veramente le cose. Ho trovato palazzi, case, chiese ingabbiate, racchiuse nelle camicie di forza di tubi che ne stravolgono le facciate e il significato, la forma e la figura, il senso e la dimensione. Di queste gabbie finora nessuno mi aveva parlato e se qualcuno lo aveva fatto io non ero stato in grado di capire. Proprio queste gabbie mi hanno fatto percepire il senso del tempo che sarà necessario perché ritorni la vita in questa città, che prima di queste ferite mortali aveva saputo esprimere un fermento sociale, civico e culturale senza uguali. Mi hanno fatto capire quanto sia stato utile ingabbiare quegli edifici perché non crollassero ma anche quanto sia stato colpevole l’attardarsi in un’attesa che non si sa quanto sarà ancora lunga, prima di porsi il problema che questa città morirà davvero ogni giorno di più se quelle gabbie rappresenteranno non un punto di partenza, ma un punto di arrivo. Ho capito perché e quanto gli aquilani rivogliano la loro città, sapendo che non sarà mai più come quella di prima, ma desiderando che ad essa la nuova L’Aquila somigli sempre di più. Ho capito perché gli aquilani non vogliono sentirsi espulsi per sempre dalla loro città, perché non vogliono una “new town” che non avrebbe senso. Vedere cinquemila persone, uomini, donne, vecchi, bambini, rianimare per una domenica il centro storico mortalmente ferito mi ha anche dato, essendo stato un testimone diretto, la sicurezza che quella manifestazione più che di protesta e di rabbia era di proposta e di determinazione, che mi trovavo di fronte ad una partecipazione spontanea e non strumentalizzata e che ne sta nascendo una forza civica che non sarà facile arrestare se qualcuno vorrà, questo sì per ragioni politiche di basso conio, provare a porsi di traverso. Da teramano, ma anche da abruzzese, ho provato orgoglio per quegli aquilani presenti a L’Aquila domenica mattina e mi sono posto una domanda alla quale non ho ancora saputo dare una risposta: noi teramani saremmo capaci di dare una risposta analoga se posti di fronte ad una analoga situazione? E possiamo essere certi che nessuno stia continuando ad attentare all’integrità del nostro centro storico e della nostra identità di città abruzzese?