Il corrosivo del 3 marzo 2009

 In gergo giornalistico si chiama “panino”. Certamente perché si vuole richiamare l’idea, e il concetto, di un panino imbottito. Una volta, anzi, il panino con dentro un companatico (prosciutto o mortadella) lo si chiamava proprio così: “panino imbottito”. Ma erano i tempi in cui non sempre chi mangiava solo un panino era abbastanza ricco da “imbottirlo”, cioè da metterci dentro, dopo averlo spaccato a metà, qualcosa che arricchisse il sapore e la capacità nutritiva del solo pane. Poi si cominciò a dare per scontato che chi mangiava un panino lo mangiasse con qualcosa dentro. Il  termine “imbottito” diventò superfluo e fu omesso e abbandonato. Così, quando si voleva dare l’idea di un giornale che si accompagnava nella vendita ad un altro giornale, il primo nazionale, il secondo locale (con il secondo, ma non sempre, fisicamente inserito dentro il primo, proprio come si fa con il prosciutto che si mette dentro il panino) si evocò il termine “panino”. La tendenza (e l’uso) si è generalizzata nel tempo e anche nella nostra regione ha conosciuto diverse edizioni. Esperimenti tutti falliti, chi più chi meno. Non sempre note le cause: a volte il panino risultava completamente estraneo al companatico, altre volte era il companatico a rivelarsi del tutto inadeguato. Così dopo poco tempo ognuno tornava a stare per conto suo, il pane e il companatico, da soli. Dopo aver augurato al nuovo “panino” (Il Resto del Carlino e La Città) un avvenire più fortunato, vorrei puntualizzare che la tradizione di fare di un giornale un inserto di un altro giornale è in Abruzzo, e particolarmente nella nostra città, assai antica, almeno nello spirito. Subito dopo la guerra le cronache locali di Teramo non erano niente altro che inserti, autentici inserti, di giornali completi. Lo erano nello spirito e nella lettera, erano, quindi, corpi estranei e come tali considerati sia da chi li realizzava (i giornalisti), sia da chi ne usufruiva (i lettori). Anche in seguito, sia pure in una foliazione diversa e apparentemente tale da garantire una presunta autonomia, le pagine di cronaca locali di giornali nazionali hanno continuato ad essere, nello spirito e nella lettera, come fette di prosciutto o di mortadella dentro un panino spaccato a metà. Vero e proprio giornalismo da “inserto”, questo modo di rappresentare e descrivere la nostra città ha abbassato sempre di più la qualità di un racconto quotidiano delle vicende di una realtà considerata come coloniale. Anche quando nacque un giornale abruzzese (ho avuto già modo di parlarne in questa rubrica), le pagine di cronaca teramana continuarono ad essere, di fatto, come degli inserti e questo condizionava lo stile del racconto, il modo di dire, la stessa maniera con la quale una città, la nostra, veniva pensata.  Senza che ce siamo accorti, Teramo è diventata sempre più meschina, ancor di più di quanto non lo fosse già nella realtà, per conto suo, ultima provincia di una regione che era essa stessa provincia, e di un impero che non era un impero, ma a sua volta provincia. Quando ho scritto che, prima o poi, avremmo dovuto interrogarci su che cosa è stato, e su che cosa stava diventando, il giornalismo teramano, intendevo dire anche questo: che la nostra città dovevamo cominciare a viverla e a raccontarla da teramani autentici, a interpretarla dal punto di vista di chi legge le cose e gli eventi sapendo che contribuisce a determinarli e di porli in essere. Finora il giornalismo teramano è consistito nel fare le cose e nel leggerle come se gli autori e i lettori della realtà fossero diversi e separati. Da oggi non potrà più essere così. Non è già più così. Un “panino”, se ben fatto, serve anche a questo.