Il corrosivo del 24 febbraio 2009 

Mi chiedo che cosa possa aver condotto moltissimi magistrati (non dico la magistratura, perché il fenomeno riguarda non l’intera categoria, ma singoli magistrati, sia pure assai numerosi) ad un’applicazione della legge che nel migliore dei casi si può definire “buonista” e nel peggiore “lassista”. Che cosa può indurre un singolo magistrato ad applicare sempre, come costante, il minimo della pena, a considerare sempre prevalenti le attenuanti e sempre di poco o nessun conto le aggravanti? Che cosa può indurre un giudice del riesame a considerare quasi sempre, se non sempre, con grande tolleranza e con giudizi da reato veniale gli stessi fatti che un altro giudice prima di lui aveva descritto con grande severità ed esprimendo giudizi da reato gravissimo (il termine mortale lasciamolo al campo dei peccati)? Che cosa può indurre un giudice di sorveglianza ad applicare le misure più liberali e di clemenza nei confronti anche di criminali incalliti e di autori di reati anche di grave allarme sociale, rimettendoli il libertà o sottoponendoli ad un blando regime di custodia cautelare a domicilio? Che cosa può indurlo alla concessione di una serie infinita di liberalità e di provvedimenti di clemenza, anche al di là di quanto previsto dallo spirito di leggi già assai benevoli di per sé, utilizzando tutto l’ampio margine concesso al potere discrezionale nell’applicazione delle leggi? E’ sicuramente un fenomeno culturale. Da qualche parte, o sui banchi dell’università o sui loro scranni, nell’esercizio quotidiano del potere giudicante, questi magistrati devono avere appreso, e devono essersene convinti, che l’uomo è naturalmente buono, che quando delinque sbaglia, che non c’è sbaglio che non sia emendabile, che infrangere la legge è dolo maleducazione, tanto che anche di un pluriomicida efferato si può dire, tutt’al più che sia un maleducato e che la pena non deve avere, al contrario di quanto diceva il filosofo Hegel, nessun fine risarcitorio, ma solo una finalità rieducativa. Qualcuno deve avere ucciso per sempre una considerazione che è rimasta a lungo nella concezione europea, ed hegeliana, della filosofia del diritto, quella correlata con il dovere-diritto che ha la società di salvaguardare se stessa, affidando alle leggi anche un compito sanzionatorio e ammonitivo. Una deviata interpretazione dei pur sacrosanti principi di Cesare Beccaria deve aver completamente devastato l’animo di questi magistrati, che nell’applicazione del diritto perdono completamente il rapporto con il sentimento di quel popolo in nome del quale pronunciano le sentenze, finendo con l’assolvere tutti e tutto, come dovrebbe fare il confessore, ma solo dopo un’assunzione di impegno a “non farlo più”, ma come non dovrebbe fare un giudice, il quale, sia a Berlino, sia altrove, dovrebbe porsi a guardia dei principi giuridici e sociali oltre che del vivere sociale. Sappiamo che cosa ha indotto gli insegnanti ad essere tolleranti oltre il dovuto e oltre il lecito nei confronti di allievi che hanno perso via via il senso della proporzioni delle loro azioni insieme con i principi etici fondamentali. Siamo in grado di ricostruire perfettamente il percorso che segue la libertà quando si trasforma in licenza, così come quello che porta ad una promozione generalizzata. Nella scuola l’insegnante che giudica ha troppi condizionamenti e a volte promuove per viltà, perché l’alunno e la sua famiglia esercitano un potere, e uno stra-potere, troppo forte nei suoi confronti, diventato sempre più debole e indifeso. Per la magistratura ricostruire i percorsi che hanno portato tanti giudici ad usare una manica così larga da riuscire a contenere praticamente tutto è più difficile. Anche perché, stranamente, nell’ufficio a fianco di un giudice di manica larga ce n’è assai spesso uno di manica stretta, che fa perdere alla giustizia e allo Stato tempo e denaro per inseguire ipotesi di reato di cui è evidente fin dall’inizio la completa inconsistenza e che al termine di un lungo iter giudiziario finiscono nel nulla, come bolle di sapone, rivelando di essere il frutto di un accanimento giudiziario del tutto immotivato.