Il corrosivo del 10 febbraio 2009

 Entro (a piedi uniti e facendo fallo) in un dibattito che non mi appartiene (almeno formalmente), sulla sinistra e sulle sue alleanze in vista delle prossime elezioni amministrative nella nostra provincia. Riducendo all’osso i termini della questione, Lino Befacchia rivendica la necessità della sinistra teramana (o vogliamo dire centro-sinistra?) di stringere alleanze e l’opportunità di stringerne una anche con un partito, l’UDC, che finora era stato alleato del centro-destra e ha cessato di esserlo non quando ha deciso di non esserlo più, ma quando è stato messo dallo sschieramento al quale apparteneva nella condizione di non esserlo più, vale a dire fino a quando non è stato cacciato. Befacchia sostiene che l’alleanza sarebbe paritaria a tutti gli effetti e questo, traendo le conseguenze logiche, significherebbe che potrebbe essere candidato a sindaco di Teramo (in questa alleanza con un partito che ora, questo è vero, si trova anch’esso all’opposizione), indifferentemente un uomo della sinistra o un uomo dell’UDC. Però, guarda caso, Befacchia sembra dare per scontato che il candidato dovrebbe essere dell’UDC, sapendo bene che mai l’UDC sottoscriverebbe l’alleanza, se questa proposta non gli fosse fatta, pur essendo nell’alleanza il partito minoritario. Insomma l’elefante si allea con il topolino, assicurando al topolino che, pur essendo più piccolo (e di centro), sarà lui il capo dell’armata. Questa è una logica tutta politica. E pensare che finora ritenevo che Befacchia fosse solito seguire principi logici di altra natura. E’ una logica che è sempre valsa, sia a Teramo che altrove, quando, avendo bisogno di un partito dello zero virgola, o poco più, era a questt’ultimo che il partito della percentuale a due cifre consentiva di dettare regole e condizioni. E questo sul piano dei numeri. Sul piano delle idee e dei programmi poi… Perché Befacchia sostiene anche che, comunque, si deve partire dai programmi. Bene. Ricordo che ogni volta che si è fatta un’alleanza con un partito democristiano (l’UDC è tale), o comunque di centro (l’UDC è tale), non è stato mai quest’ultimo che ha rinunciato a proprie posizioni ideologico-cattoliche-cristiane-ecclesiastiche, ed è stato sempre l’altro soggetto dell’alleanza che ha dovuto rinunciare alle proprie, finendo per annacquare totalmente, ammesso che ne avesse, i propri principi ideologici. Insomma, per poter vincere, o almeno sperarlo, la sinistra, secondo Befacchia, dovrebbe affidare il comando dell’esercito al generale alleato e affidarsi alla sua strategia. Che senso ha vincere, se per farlo devo mettere un altro al mio posto e snaturare la mia politica? Che senso ha per la sinistra vincere affidandosi ad un uomo di centro che non potrà non perseguire una politica di centro e perciò rinunciare ad essere sinistra? Anche la destra, ahimè, ha vinto (affidandosi ad un uomo di centro, che sta perseguendo una politica di centro), avendo dovuto rinunciare, nel frattempo, ad ogni orientamento di destra e perfino al proprio vocabolario politico. Se la destra non vince come destra, si allea con il centro e, quando il centro vince, vince anch’essa. Ma è vittoria questa? Ed è vittoria del proprio orientamento politico? Se la sinistra non vince, si allea con il centro e, quando il centro vince, vince anch’essa. Ma è vittoria questa? Ed è vittoria del proprio orientamento politico? Se questa vittoria può soddisfare il pragmatismo politico degli uomini (che per sete di potere vogliono vincere ad ogni costo), non può soddisfare le idee (non le ideologie) che per camminare hanno bisogno degli uomini. Vorrei ricordare a Befacchia che una volta il centro veniva chiamato “la palude”- Se si va in palude, bisogna essere disposti a “impaludarsi”, rinunciando a camminare sul terreno solido delle proprie idee e alle proprie calzature. Ma se vuole, faccia pure: calzi pure gli stivali ed entri nella palude: disposto ad infangarsi.