Il corrosivo del 14 novembre 2006   

 

Cane non mangia cane

 

     Un antico motto, al quale si attribuiva un tempo grande credito, avvisava: “cane non mangia cane”. Da tempo il credito è venuto meno, a questo come ad altri motti, perché una specie di mutazione genetica deve aver colpito uomini, animali e proverbi, molti dei quali risultano del tutto smentiti e sovvertiti dalla realtà. Accade così, sempre più sovente, che i cani mangino i cani, che le gatte vadano al lardo senza lasciarci lo zampino e che ci si trovi in tredici a tavola senza problemi di sorta.

     Che i cani abbiano cominciato a mangiare i cani lo conferma con quanta spietata concorrenza in alcune mestieri e in alcune professioni fior di mestieranti e fior di professionisti si azzannino tra di loro per disputarsi fette di mercato. Lo dimostra anche quanto, in alcuni comparti economici e produttivi, si scatenino guerre all’ultimo sangue. Uno dei capitoli più recenti di questa storia di scontri senza quartiere è, anche dalle nostre parti, l’accanimento con il quale centri commerciali già esistenti, alcuni in via di realizzazione, altri soltanto progettati, si stanno accapigliando tra di loro, con ricorsi, denunce e carte bollate, per togliere spazio vitale a chi rischia di toglierlo agli altri. Il livello di tale accanimento è reso ancora più alto dal fatto che in questo settore la proliferazione dei centri commerciali è proseguita, instancabile, pur in presenza dei primi  segnali di una contrazione dei consumi e di una evoluzione del concetto stesso di “concorrenza”, che si avvia su un terreno inesplorato del quale nessun economista ha finora potuto realizzare una mappa, sia pure soltanto immaginata.

     Una caratteristica dei dati evolutivi fin qui noti è costituita dal fatto che la concorrenza non sembra produrre effetti benefici per il consumatore, non sul piano almeno della qualità dei prodotti o del prezzo al pubblico degli stessi. Striscianti tentativi di dumping o di cartello spiegano solo in parte l’evanescenza del concetto di convenienza per il consumatore finale di un alto indice di concorrenza  tra i centri commerciali. Ma non è questo l’aspetto che qui voglio sottolineare. Mi preme assai di più porre l’accento su un’ulteriore modificazione che sta subendo il ruolo del cittadino-consumatore nell’attuale dinamica di trasformazione del mercato della grande e piccola distribuzione. Tale ruolo deve confrontarsi con la dimensione polivalente del concetto di “consumo”.

     Il consumo è sempre di più fine a sé, principio e fine della produzione, unico riconosciuto fattore di produzione della ricchezza, in un contesto in cui per ricchezza si intende solo quella materiale. Ci si deve così porre una domanda: posti di fronte a questa dimensione del consumo e a questa concezione di una ricchezza solo materiale, quali difese hanno i soggetti meno attrezzati di spirito critico, meno forniti di valori immateriali, in quali istituzioni possono trovare la possibilità di essere guidati all’individuazione di un criterio selettivo che consenta loro di non essere strumentalizzati dai persuasori occulti, costruttori di bisogni immaginari ? I nostri giovani da chi vengono educati a considerare che non si è qualcuno solo perché si consuma qualcosa e che ci sono bisogni di primaria importanza che non sono materiali e reperibili sotto forma di prodotti di consumo ? La famiglia e la scuola esercitano ancora pienamente questa funzione ?